Cinquant' anni fa, ottantaduenne, reduce da un viaggio negli Stati Uniti che l'aveva affaticato e fatto ammalare, dopo un soggiorno di convalescenza a Salsomaggiore e un'avventurosa fuga in taxi sino a Milano, moriva Giuseppe Ungaretti, il girovago, il nomade, l'esule, il poeta fedele sino alla fine alla sua convinzione espressa da giovane: «In nessuna parte / di terra / mi posso / accasare». Oggi, all'inizio del terzo decennio del XXI secolo, il suo vagabondaggio tra paesi, lingue e culture, la sua concezione di un primato spirituale della poesia, la sua anarchica energia vitale, la sua difesa dell'umano, la sua fede generosa nell'amore, nell'invisibile, in un cristianesimo palpitante, «incarnato dell'umane tenebre», rendono Ungaretti il più contemporaneo dei poeti del Novecento. Che si può leggere tutto, poesie, traduzioni, saggi, epistolari, nelle edizioni di Mondadori, che per l'anniversario manda in libreria nella collana dello Specchio la sua traduzione più significativa, Visioni di William Blake.
Ungaretti, nato nel 1888, si forma nella Alessandria d'Egitto cosmopolita, febbrile, sordida dove nelle taverne scriveva le sue poesie d'amore sensuale Kavafis e dove nelle vie risuonavano le nenie dei muezzin. È figlio di immigrati dalla Lucchesia: il padre, morto precocemente, lavorava come sterratore nel taglio del Canale di Suez, la madre, alla cui memoria verrà dedicata una poesia colma di una altissima commozione, aveva un forno alla periferia della città, i cui proventi consentirono al giovane Ungaretti di studiare in un prestigioso Liceo francese. Lasciato l'Egitto, la sua prima meta naturale fu Parigi, dove entrò in contatto con Apollinaire e Breton, Picasso e Modigliani, Soffici e Palazzeschi. In Italia arrivò in tempo per sostenere l'interventismo e arruolarsi come fante semplice allo scoppio della prima guerra mondiale. L'esperienza della trincea fu lancinante. La poesia sorse da lì, e fece a pezzi con gli effetti di una granata tutta le polverose incrostazioni letterarie che si erano accumulate sul linguaggio poetico italiano dopo Carducci, Pascoli, D'Annunzio, e perfino con i crepuscolari. Ungaretti prese la parola come scavandola da un abisso e la circondò di silenzio, restituendole una forza espressiva vergine. Testi come Vanità, Veglia, Italia, Fratelli vanno recitati mentalmente lasciando tra un verso e l'altro uno spazio sospeso, vuoto, bianco, che liberi «il limpido stupore dell'immensità». Tra D'Annunzio che esaltava la propria figura di autore come eroe, e Gozzano che pudicamente, ironicamente finiva per vergognarsi di scrivere poesia, Ungaretti recupera l'orgoglio doloroso di essere poeta in quanto «grido unanime» e «grumo di sogni», figlio di un popolo e di un'Italia nella cui uniforme di soldato si riposava, come se fosse la «culla» di suo padre.
Era inevitabile che aderisse al fascismo, in quel momento storico: meno inevitabile che Benito Mussolini firmasse la prefazione alla seconda edizione del 1923 di Il porto sepolto. Questo fatto, da cui non mi risulta che il poeta avesse tratto grandi benefici - campò di collaborazioni giornalistiche e di piccoli impieghi ministeriali - più tardi fu invece un macigno che si interpose tra lui e il Nobel. Che lui desiderava soprattutto, come si legge nelle strepitose lettere a Bruna Bianco, la sua innamorata italo-brasiliana di tantissimi anni più giovane, per comperare una casetta a Capri e farne un rifugio d'amore. Dopo la deflagrazione della metrica tradizionale, già alla fine dell'Allegria ma soprattutto nel Sentimento del tempo, nel Dolore, sino a La terra promessa, Ungaretti ricostruisce con straordinari endecasillabi la musica della grande tradizione lirica italiana, liberata da incrostazioni e impacci, di una bellezza totalmente nuova: «Scade flessuosa la pianura d'acqua», o «Bel momento, ritornami vicino», «Tornano in alto ad ardere le favole», «E il cuore quando d'un ultimo battito».
Ma ricostruendo, Ungaretti non spegne il suo fuoco: la sua vita conosce dolori insopportabili, come la morte del figlio Antonietto durante gli anni passati in Brasile, umiliazioni brucianti, come la sospensione nel 1944 dall'università di Roma dove insegnava dopo essere tornato in Italia, con la riabilitazione definitiva arrivata soltanto due anni dopo grazie anche all'intervento di un grande intellettuale comunista come il Sapegno, ma il poeta non cede mai a disperazione e disincanto. Guarda ai giovani con spirito di apertura e di complicità. Tra i suoi allievi, quello destinato a una carriera più illustre, Leone Piccioni, diventa anche un amico insostituibile. Nel 1968, vecchio, oracolare, delirante, legge sue traduzioni dall'Odissea in apertura di uno sceneggiato televisivo tratto dal poema omerico. È il massimo della fama, in un Paese che non conosce i suoi poeti. E nel mondo, lui, il girovago, così italiano e così «meticcio», diventa un'icona della poesia. Ho sentito parlare di lui come del suo maestro il più grande e influente dei poeti in Turchia, Ilhan Berk, e ho incontrato giovani intellettuali in Colombia, e persino una giovane poetessa guatemalteca che ne recitavano i testi a memoria. Intanto, Montale, che aveva teorizzato di vivere al cinque per cento, come continua a piacere agli intellettuali italiani, diventa senatore a vita, e Ungaretti, che si fa chiamare familiarmente «Ungà», sillaba chissà in quale trattoria romana e in compagnia di chi, se non è una leggenda, quel distico felicemente anarchico e irridente qualunque potere: «Montale senatore / Ungaretti fa l'amore».
Già, Ungaretti invecchiò bene: continuò ad amare, ebbe quella bellissima storia testimoniata dalle lettere a Bruna Bianco, che, a conoscerla - io ne ho avuto la fortuna - mantiene intatto ancora oggi un fervore di vita così squisitamente ungarettiano, ebbe infine un'ultima fiamma in Dunja, la giovane croata.
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