La mostra mantovana «La pietra e il cerchio» (Palazzo Te, fino al 7 aprile) costituisce una sorta di summa dell'interrogazione che, attraverso la pittura, Roberto Floreani dedica a due luoghi privilegiati, a due ossessioni che hanno accompagnato la sua ricerca formale nell'ultimo decennio: la memoria e la circolarità.
Floreani sembra operare sulle dimensioni impalpabili di uno fra i nodi centrali attorno a cui la ricerca artistica contemporanea si è esercitata e consumata: il tempo, la «più infida delle illusioni» come la definiva Hermann Hesse. Noi disponiamo del tempo in virtù dei mezzi che il presente ci consegna: lo «spirito del tempo» si dota sempre di nuovi orizzonti, metodologie, interpretazioni. Come avrebbe detto Nietzsche, la verità - anche quella di un'immagine - sta nel metodo. La verità si costruisce, con lentezza, con determinazione, con un'applicazione costante. E, soprattutto, senza infingimenti, senza tradire le strategie imposte dal «metodo».
La corrugosità della pittura di Floreani, il lento disporsi del gesto e la composizione dei segni che la abitano, il continuo rimando all'esperienza passata, rinviano proprio alla tensione che si istituisce tra memoria e circolarità del tempo, ma a una condizione: l'«eterno ritorno» non è mai una ripetizione, un ripiegare dell'immagine su se stessa, una coazione a ripetere che ritorna allo stesso punto. Ma piuttosto una disposizione che permette all'artista - alla pittura e ai suoi segni - di individuare le movenze attraverso cui quella tensione, quel campo di forze instaurato dalla relazione tra memoria e tempo, si rende palese.
Ecco allora una delle possibili, o plausibili, definizioni della persistenza della pittura e delle immagini «astratte» che questa è in grado di generare: fissare i modi, modulare per immagini, dar corpo alla complessità che anima l'emozione di quanto nella memoria si consegna e svolgersi del tempo. Alexandre Kojéve, con ogni probabilità, avrebbe preferito parlare di immagini «concrete», come quelle che intravedeva nella ricerca che suo zio Vasilij Kandinskij, conduceva negli anni del Bauhaus. Kojéve non amava l'indeterminatezza del termine «astratto», proprio perché preferiva insistere sulla concretezza spirituale di un progetto che si sforzava di perseguire un fine che - a suo avviso - le avanguardie storiche avevano posto in secondo piano: la bellezza.
Eppure, nelle «serie» che Floreani esplora da oltre un decennio e che oggi, nelle oltre 50 opere su tela che compongono la rassegna, sembrano trovare una sorta di approdo, per quanto temporaneo, si manifesta il gioco della composizione che, per linee e colori, squaderna un tema arcano. Un tema inafferrabile e ineludibile, un rischio che non prevede mai l'insorgenza pacata dell'immagine, il suo necessario manifestarsi, quanto piuttosto il ritmo dinamico, l'inarrestabile contrappunto che il tempo esercita sull'esperienza vissuta.
Nel 1895 Paul Gauguin, in un'intervista a L'Écho de Paris, disse: «riesco ad ottenere, grazie ad accostamenti di linee e di colori, col pretesto di un soggetto qualsiasi ispirato alla vita o alla natura, delle sinfonie, delle armonie che non rappresentano alcunché \ ma che fanno pensare solo come la musica fa pensare». Il pretesto, adesso, è stato eliminato, non è più necessario: la registrazione dei «dati visivi» è ormai troppo carente di ideale o, per dirla con Odilon Redon, è «troppo bassa di soffitto».
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