I diari di Maria Pasquinelli e il dramma degli italiani in Istria e Dalmazia

Nei suoi diari, ora raccolti in Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni), l'autrice ripercorre il dramma degli esuli. E le atrocità dei titini

I diari di Maria Pasquinelli e il dramma degli italiani in Istria e Dalmazia

Maria Pasquinelli ha solamente 33 anni quando, la mattina del 10 febbraio del 1947, prende con sé una pistola, la nasconde e si dirige verso la guarnigione britannica di Pola. Quella, infatti, non è una mattina come le altre: centinaia di chilometri più in là, a Versailles, si stanno decidendo le sorti dell'Italia. I Paesi vincitori hanno deciso che il nostro Paese dovrà cedere parte dei suoi territori. Prime tra tutte, l'Istria e la Dalmazia. Un affronto impossibile da tollerare per Maria che, preso un pezzo di carta, scrive: "Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d'Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio".

Con la certezza di uccidere e di essere uccisa, la giovane arriva davanti alla guarnigione britannica e spara al brigadiere generale Robert de Winton, che avrebbe dovuto dare le chiavi della città ai titini. Lo guarda, poi spara. Si aspetta una risposta, già sente i proiettili che le attraversano il corpo, ma non accade nulla. La Pasquinelli viene prima arrestata e poi processata: pena di morte, poi commutata in ergastolo. Nel 1967 chiede la grazia presidenziale e la ottiene. Esce di prigione senza rinnegare nulla: il fascismo, la Decima Mas e lo sparo di quel 10 febbraio. Sostiene la causa degli esuli e difende la memoria degli infoibati fino a quando non muore, nel 2013. Nel frattempo scrive e raccoglie documenti su ciò che sta accadendo al di là dell'Adriatico e li consegna alla Curia di Trieste, dove giacciono per decenni, fino a quando Rosanna Turcinovich e Rossana Poletti hanno l'opportunità di visionarli: "Le cartelle nel baule, che apriamo con il religioso rispetto, sono stipate di relazioni battute a macchina su carta velina, in più copie. Su alcune i nomi appaiono solo con le iniziali puntate, su altre, Maria Pasquinelli ha aggiunto a mano i nomi completi. Sono segni di una presenza che ritorna, scatenando emozioni", si legge nella prefazione di Tutto ciò che vidi. Parla Maria Pasquinelli (Oltre edizioni).

Le memorie della Pasquinelli sono puntuali, fondamentali per comprendere cosa accadde dall'8 settembre in poi, e anche a smontare una certa vulgata, secondo la quale si iniziò a parlare di foibe solo molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non è così. La Pasquinelli ha infatti raccolto le prime pagine di diversi giornali che, già nell'ottobre del 1943, raccontano ciò che stava accadendo in Istria e Dalmazia: "Giorni d'angoscia a Vines" - scrive Il Piccolo il 26 ottobre 1943 - "Il numero totale dei massacrati nella foiba si aggirerà sugli ottanta. Poseguono le ricerche presso altre foibe e cave di bauxite poiché manca ogni traccia di interi gruppi portati via da diverse città". Sempre Il Piccolo, il 4 novembre 1943: "23 salme di italiani in una cava di bauxite. Un sacerdote tra le vittime della barbarie comunista. Ricordi di uno scampato alla strage. Solo sei corpi finora identificati". E ancora, il giorno seguente: "Altre 30 vittime trovate in due voragini presso Barbana".

La Pasquinelli raccoglie informazioni sul campo e, nel frattempo, cerca di creare un ponte tra il comandante Junio Valerio Borghese e i partigiani bianchi della Brigata Osoppo, ma non ottiene i risultati sperati. Si dedica quindi a documentare le violenze titine. Alcune più terribili di altre, come quelle inferte a Norma Cossetto. Si legge a pagina 125 di Tutto ciò che vidi : "Ha le mani legate, ma davanti, marci con gli altri verso la morte. (...) Sedici 'gentiluomini' slavi hanno approfittato di lei durante la sua prigionia. Che può importarle ormai di morire? Il cammino verso la foiba prescelta è aspro e la notte lo rende più difficile. Pensano però i partigiani a 'sorreggere' i prigionieri a bastonate, calci, spintoni, insulti". Finalmente, dopo una vera e propria via crucis di terrore, Norma arriva davanti alla foiba. "Le vittime vengono raggruppate da una parte, ma i 'capi' prima di incominciare la loro opera tengono un breve consiglio. Ed eccone l'orrenda decisione: i prigionieri non saranno fucilati, ma buttati vivi nella foiba".

La Pasquinelli raccoglie tutto, perfino dettagli all'apparenza poco importanti, e cerca di decifrarli. Come il caso delle carcasse di cani neri trovati all'interno delle voragini carsiche: "Assieme agli 84 corpi umani straziati, sul fondo della foiba fu trovata la carogna d'un cane nero gettatavi dagli assassini dopo la strage. Perché? Quale significato poteva avere questo simbolico bestiale gesto? Non può esserne data una spiegazione certa. Forse bisogna rifarsi alle vecchie leggende e superstizioni dei luoghi. Una di esse afferma che le anime dei morti non sepolti vaano la notte per le campagne chiedendo sepoltura e terrorizzando i vivi. Perciò quando un uomo abbandona insepolto il cadavere di un nemico deve lasciargli accanto anche una carogna di cane nero che ne custodirà l'anima e le impedirà di lagnarsi".

Maria Pasquinelli racconta tutto questo.

Lo fa da protagonista che ha vissuto la Storia in prima persona, mossa da un intenso amore di patria che, nel caso dell'omicidio di De Winton, si tramutò in odio per l'avversario. A chi la accusava di esser rimasta fascista la Pasquinelli rispondeva: "Io non appartengo al fascismo, appartengo all'Italia". Forse però l'Italia non era più in grado di comprenderla.

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