Meglio nessuna legge di una legge brutta. Anche per l'eutanasia

Un medico di fronte ai temi cruciali della bioetica. Ci vogliono regole semplici e non rigide. Ispirate all'esperienza sul campo

Meglio nessuna legge di una legge brutta. Anche per l'eutanasia

A riel Sharon non è morto l'11 gennaio 2014, è morto otto anni prima, nel 2006, quando ebbe gli episodi di emorragia cerebrale che lo ridussero in coma.

È stato giusto andare avanti tanto quando non c'era nelle sue condizioni nessuna possibilità di avere nessuna, ma proprio nessuna coscienza di sé, né dell'ambiente? Probabilmente no. Ma è il destino dei grandi leader: Josip Broz Tito, Francisco Franco e Hugo Chávez per esempio. E anche Nelson Mandela (in stato vegetativo permanente, anche lui idratato e alimentato per molti mesi prima che si fermasse il cuore). «Mi inchino di fronte alla santità della vita, ma non a ogni costo», ha commentato su The Observer Desmond Tutu, l'arcivescovo di Città del Capo, definendo una disgrazia l'insistenza dei medici.

Ed è stato così anche per Eluana Englaro, che secondo il padre non è morta quando si è deciso di sospendere idratazione e alimentazione ma diciassette anni prima, il giorno dell'incidente. Davvero? Sì, certo, ma per poterlo capire dobbiamo prima chiarirci le idee sul concetto di stato vegetativo. Chi vive in stato vegetativo è sveglio, apre e chiude gli occhi ma non ha nessuna coscienza di sé né di chi gli sta intorno. E come si arriva allo stato vegetativo? Per un trauma al cervello, come è stato per Eluana o perché al cervello non arriva abbastanza sangue, come per Terri Schiavo: il suo cuore si era fermato per qualche minuto, e il cervello era rimasto senza ossigeno. Lo stato vegetativo può durare giorni, settimane, mesi: è quello che i medici chiamano stato vegetativo persistente. E non è detto che sia irreversibile. Anzi, dopo un po' qualcuno riprende. Apre gli occhi non a caso, ma in risposta a qualche stimolo. Comincia a esserci qualche forma di coscienza, minima magari, ma c'è. Questi ammalati possono essere confusi, non ricordare il proprio nome, non sapere dove si trovano, ma la percezione di sé e dell'ambiente, almeno un pochino c'è. E capita, soprattutto ai giovani, che migliorino ancora fino ad arrivare a un certo grado di indipendenza. Se però una persona resta in uno stato vegetativo per molti mesi, un anno o più, allora lo stato vegetativo si chiama permanente e l'unica evoluzione possibile è la morte. Sempre, senza che ci possa essere mai nessuna forma di ripresa, nemmeno minima.

Terri Schiavo è rimasta così per quindici anni, poi s'è sospeso tutto. Dopo pochi giorni è morta ed è stata eseguita l'autopsia. Il suo cervello pesava 615 grammi, circa la metà del peso di un cervello normale. Non avrebbe mai potuto bere, né alimentarsi da sola perché i centri nervosi che governano la deglutizione erano morti. Terri Schiavo apriva e chiudeva gli occhi ma non vedeva perché anche i centri nervosi che controllano la visione nel suo cervello non c'erano più. Il dottor Martin Samuels, del dipartimento di neurologia di uno degli ospedali dell'Università di Harvard, ha coordinato il lavoro di molti medici sul cervello di Terri Schiavo. Il loro compito era stabilire, al di là di ogni possibile dubbio, se quel cervello avrebbe mai potuto avere qualche forma di coscienza, anche minima. «Non ci poteva essere nessuna forma di coscienza in quel cervello, né ci sarebbe mai potuta essere, per quanto chiunque si fosse prodigato in tutti i modi possibili», ha dichiarato Samuels ai giornalisti del New York Times alla fine del suo lavoro. «Semplicemente non c'erano neuroni.» Tanti pensano che anche in queste condizioni non si debba mai sospendere nutrizione e idratazione, che devono continuare, dicono, fino alla fine naturale della vita. Ma c'è ben poco di naturale in quello che è successo a Eluana, e alle migliaia di persone che oggi in Italia sopravvivono in stato vegetativo permanente.

«Interrompere la vita non è mai nel potere dell'uomo.» Ma di quale vita parliamo? Di quella che è un bene in sé, indipendentemente dallo stato di coscienza? O di quella che è un bene per la società, anche se una persona non sa nulla né di sé né del mondo? O di quella che solo Dio può dare e può togliere? Ma la fine naturale della vita di Terri Schiavo sarebbe stata il 25 febbraio 1990 e quella di Eluana Englaro il 18 gennaio 1992. Se Terri Schiavo ed Eluana Englaro sono state tenute in vita è per via dei medici, e delle macchine che ci sono oggi. Trent'anni fa questo non sarebbe stato possibile. Vuole dire che è stato sbagliato rianimarle? Assolutamente no. Era giusto farlo con l'idea di poter recuperare almeno qualcosa della funzione del loro cervello, come capita qualche volta a chi è in stato vegetativo da poche settimane e perfino da qualche mese. È per questo che prima di sospendere la nutrizione in chi è in stato vegetativo è prudente aspettare un anno, proprio per mettersi al riparo da qualunque possibilità, per quanto estremamente remota, di recupero. Dopo, è tutto inutile.

A decidere di rianimare Terri Schiavo ed Eluana tanti anni fa sono stati i medici, senza l'intervento di giudici e di tribunali (anche a volerlo fare non ci sarebbe stato il tempo) e hanno fatto benissimo. Per la stessa ragione dovrebbero essere i medici a decidere quando smettere dopo averne discusso con i famigliari e tenuto conto (quando c'è) della volontà dell'ammalato. «La legge è il luogo più inadatto, più inospitale per depositarvi visioni ultime della vita» c'era scritto sul Corriere della Sera di qualche anno fa. Certo non si possono stabilire regole che valgano per tutti; questa è materia delicatissima, fatta di pochi punti fermi e moltissime storie, diverse una dall'altra, e di tante sfumature che coinvolgono la sfera privata delle persone. Ci vuole garbo, sensibilità e tanto buon senso e le regole, se ce ne saranno, devono essere semplici, dettate dalle conoscenze e mai troppo rigide. Una corte d'assise francese rifiutò l'accusa di omicidio per un medico ospedaliero che aveva accelerato la fine di certi suoi ammalati nell'intento di lenire le loro sofferenze; questo indica una sensibilità particolare. La legge certo non lo consente nemmeno in Francia ma i giudici hanno capito. Da noi cose così succedono ogni giorno, in tutti gli ospedali. Non se ne parla ed è un gran bene. E poi sui pochissimi che diventano casi di cronaca ci si divide. Ipocrisia? Forse, o forse solo mancanza di conoscenze.

Legiferare è difficile per tutti in questo campo e per noi lo è ancora di più. Quella legge – di cui si è discusso a lungo in Italia senza riuscire a trovare un consenso in Parlamento – non è una brutta legge, è una pessima legge, molto meglio nessuna che una legge così. Nell'articolo 3 si legge di «pratiche di carattere eutanasico» e «abbandono terapeutico»: sono modi di dire. Chi ha scritto questa legge li usa con grande disinvoltura, ma in medicina a queste parole non corrisponde nulla. E sempre nell'articolo 3 c'è scritto «accanimento terapeutico». Cosa vuol dire? E come stabilirlo per legge?

Quando Willem Kolff ha sperimentato la prima macchina per la dialisi all'Ospedale di Kampen, dei primi 15 malati trattati 14 sono morti. Era accanimento terapeutico? Kolff è andato avanti. Oggi nel mondo due milioni di persone vivono (qualcuno da più di trent'anni) grazie alla dialisi. Quando Christiaan Barnard fece il primo trapianto di cuore, fu una notizia, di quelle che fanno epoca, ma l'ammalato visse due settimane soltanto. E se ne fecero altri di trapianti di cuore, ma i risultati non furono buoni. Oggi i trapianti di cuore vanno bene. Qualche tempo fa, un bambino che avesse una leucemia acuta moriva, oggi non succede più: è perché si è provato con diversi chemioterapici fino a trovare la combinazione giusta. Senza queste forme di «accanimento» la medicina sarebbe ancora quella di cento anni fa. Vuol dire che bisogna sempre e comunque curare tutti, anche quando non c'è nessuna speranza di guarire o di stare, almeno, un po' meglio? No. Ho visto persone di più di ottant'anni, con il diabete, l'infarto, già diversi bypass al cuore, un tumore all'intestino tenuti in vita col respiratore artificiale e la dialisi. Che prospettiva di vita può avere un ammalato così? Nessuna. E allora perché si va avanti? Mah, per i parenti… Uno degli argomenti di chi è contro le terapie futili a ogni costo è che ci vuole «rispetto per la vita, fino alla sua fine naturale». Detto così non fa una piega, ma che cos'è la fine naturale della vita? Dick Cheney è diventato vicepresidente degli Stati Uniti quando aveva già avuto tre attacchi di cuore. Dopo che ne ha avuto un altro, i medici gli hanno dilatato le arterie che portano il sangue al cuore e poi gli hanno messo delle mollette (stent) per tenerle aperte. Se Cheney lavora ancora è perché la medicina ha cambiato la storia naturale della malattia. Fosse vissuto ai tempi di Franklin Delano Roosevelt, Cheney sarebbe morto, proprio come è morto Roosevelt che aveva più o meno i suoi stessi problemi. C'è ben poco di naturale in quello che è successo a Cheney. Ed è stato così per Piergiorgio Welby. Lui ha chiesto di morire. L'ha chiesto al Presidente Napolitano, che avrebbe voluto un dibattito in Parlamento. Ma le reazioni «no all'accanimento terapeutico e all'eutanasia» hanno trasformato il dibattito, neppure cominciato, in una rissa ideologica fra persone elette per rappresentarci, ma del tutto prive delle conoscenze anche minime per affrontare una simile discussione. Peccato, avrebbe dovuto essere l'occasione per approfondire questi temi lasciandosi guidare dalla voglia di capire. E allora? Giorgio Napolitano ha fatto bene a chiedere che di questi argomenti si discuta in Parlamento con l'obiettivo di poter regolamentare, per legge, la materia. Ma perché ne esca una buona legge, servirebbe una discussione aperta fra persone che abbiano voglia di capire bene quello che saranno chiamati a discutere, fuori dalle ideologie e dai dettami dei partiti.

Negli Stati Uniti il 30 per cento di quello che si spende per la salute serve per gli ultimi sei mesi di vita della gente. È giustificato? Probabilmente no.

Capita, da noi, che in certi ospedali non si trovi posto in rianimazione per un ragazzo con la meningite. O meglio il posto ci sarebbe ma è occupato da qualcuno, magari molto anziano, quasi sempre incosciente, che non ha nessuna prospettiva di vivere o di avere una vita di relazione anche minima. Fare il medico è rianimare, certo, ma anche saper sospendere le cure quando sono inutili. Fa parte delle nostre responsabilità, è a tutela di chi non ha più speranza perché non debba subire trattamenti inappropriati (alimentazione e idratazione aiutano a guarire, ma ci sono casi in cui farlo aumenta le sofferenze anziché alleviarle). E dei tanti che di cure intensive invece hanno bisogno per vivere. Un disegno di legge presentato nel luglio 2014 alla Camera alta del Parlamento britannico da Charles Falconer va proprio in questa direzione. È una questione fra l'ammalato e il suo medico e spetta al medico decidere se e quando interrompere terapie futili e accelerare la morte di pazienti con sofferenze eccessive e nessuna prospettiva di vita nemmeno a breve termine.

© 2015 Sperling & Kupfer

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