"Mio nonno Ernest? Era un cacciatore, diversamente macho"

Il nipote del premio Nobel Hemingway, in Italia per il festival "èStoria", svela le complicate vicende della sua famiglia. Tra confessioni letterarie e disturbi bipolari...

Ernest Hemingway negli anni Trenta
Ernest Hemingway negli anni Trenta

Lui si chiama John Hemingway ed è davvero membro di una strana tribù. Quella degli Hemingway appunto, all'origine della quale c'è Ernest, premio Nobel e gigante assoluto della letteratura mondiale. E se gli eredi dei grandi scrittori sono, spesso, personaggi che vivono di luce riflessa, va subito detto che non è il suo caso. Ha pubblicato un libro coraggioso che s'intitola Strange Tribe. Racconta la difficoltà di vivere all'interno di questa strana famiglia, originata dai molti matrimoni e dalle geniali sregolatezze del suo grandissimo nonno. E per primo si è messo davvero a indagare sul complesso rapporto che legava suo padre Gregory (1931-2001) all'autore de Il vecchio e il mare. E l'esistenza di Gregory - che morì in un centro di detenzione, nella vita fece il medico, ebbe otto figli, cambiò sesso facendosi chiamare Gloria, e fu legato ad Ernest da un ambiguo rapporto di amore e odio - è davvero un romanzo postmoderno, non scritto ma vissuto. John di tutte queste vicende familiari è una memoria vivente.

John, Lei è appena tornato in Italia per ricordare al festival «èStoria», domenica 25 maggio, le vicende italiane di suo nonno durante la Prima guerra mondiale.

«Sì, per mio nonno fu un'esperienza fondamentale, come uomo e come artista. Ha rischiato di morire colpito da una granata austriaca. Molti dei suoi racconti degli anni Venti e Trenta risentono di quanto gli è successo. Raccontano la difficoltà di reinserirsi nella vita normale. Mettono su carta con moltissimo anticipo quei disordini da stress post traumatico di cui si è iniziato a parlare davvero solo dopo la guerra del Vietnam e dell'Iraq...».

Suo nonno è comunque rimasto tutta la vita un fanatico della caccia, del rischio... Un retaggio della guerra?

«La caccia no, era lì da prima. È un retaggio del bisnonno Clarence (che si suicidò nel 1928, Ndr) che amava moltissimo la natura. È una cosa che tutti gli Hemingway si passano di padre in figlio. Anche mio padre e il nonno hanno avuto i momenti più forte, a livello di legame affettivo, proprio a caccia. Sono spazi maschili, molto intimi, fatti di silenzio, attesa, lezioni di vita...».

Suo padre era un Hemingway un po' diverso dal resto della tribù o no?

«Come ho spiegato nel mio libro, magari mio padre a prima vista può non sembrare conforme all'immagine di un Hemingway “medio”. Alla vulgata del macho. Ma mio padre e mio nonno erano molto simili. Il cambiamento di sesso di mio padre è solo un proseguimento di temi che ossessionavano anche mio nonno...».

Mi faccia capire.

«Mio nonno voleva superare le distinzioni tra maschile e femminile, molti suoi racconti, gli inediti e le lettere, sono spesso incentrati sul fatto che per essere un vero uomo bisogna andare oltre “ogni legge tribale”, oltre l'etica comune. E nei racconti questo tema torna sempre, come anche nel romanzo postumo Nel giardino dell'Eden. Mio padre essendo un medico ha portato avanti questa ricerca sul suo corpo... Ma entrambi avevano la stessa sensibilità, la stessa sofferenza anche».

Ne hanno mai parlato tra di loro?

«Mio nonno quando abitavano a Cuba trovò mio padre undicenne che si stava provando, nella sua stanza, delle calze da donna. Lo guardò e non gli disse niente... Solo qualche giorno dopo lo chiamò mentre stavano vicini alla piscina, e gli disse “Tu e io proveniamo da una strana tribù”. Non ne parlarono più, ma rimase chiaro che avevano questo in comune. Però mio padre non lo raccontò mai in pubblico. Del resto chi gli avrebbe creduto? Solo ora gli studiosi stanno riscoprendo questo lato di mio nonno. Io non dico che fossero gay, è riduttivo, probabilmente erano etero con dei bisogni diversi...».

Entrambi hanno avuto una vita carica di sofferenza...

«Erano dei coraggiosi esploratori dell'animo umano. Ma erano anche fragili e sensibili. Nessuna esplorazione o viaggio è privo di sofferenza e non necessariamente ha un happy end. Ma il vero viaggiatore non può non partire...».

Non sono mancate le tensioni tra di loro. Soprattutto per la morte di sua nonna, Pauline Pfeiffer, seconda moglie di Hemingway...

«Mia nonna morì poco dopo che mio padre fu arrestato perché era entrato nel bagno delle donne di un teatro e dopo che mio nonno le aveva telefonato infuriato... Mio nonno accusava mio padre di averla fatta morire. Mio padre, che era medico, si fece dare i dati dell'autopsia che dimostravano chiaramente che era stato lo stress della telefonata ad averle causato un attacco fatale. E alla fine gli scrisse: “Sei tu che l'hai uccisa con la tua telefonata, vecchio bastardo”. Solo allora Ernest smise di accusarlo. Ma di quei fatti mio padre non parlava, si portò tutto dentro».

Sia suo nonno che suo padre erano bipolari. Questo le ha mai fatto paura?

«Il disturbo bipolare della personalità si manifesta di norma tra i 17 e i 19 anni. A me non è successo, quindi nella roulette genetica mi è andata bene. Forse è anche questo che mi ha consentito di affrontare la mia storia familiare e di scriverne».

Che eredità le ha lasciato

Ernest? In cosa si sente un Hemingway?

«Mio nonno e mio padre mi hanno lasciato un certo tipo di umorismo, di modo di guardare il mondo. Non ho mai vissuto la famiglia come un peso, nella vita bisogna guardare avanti».

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