Il musicologo che le cantava allo spartito del conformismo

Amava gli autori snobbati dai modaioli e li difendeva con sagacia e cultura. In prosa raffinata ed efficace.

Il musicologo che le cantava allo spartito del conformismo

Ricordo la prima volta che conobbi Paolo Isotta, ero quasi uno sbarbatello, senza la minima idea che un giorno avrei scelto di fare la sua professione, il critico musicale. Nella mia famiglia paterna la critica militante non era quella dei gazzettieri, ma quella praticata da autorità che venivano dalla storiografia musicale, dalla poesia e anche dalle file del giornalismo delle più varie estrazioni politico-culturali: Lorenzo Arruga, Mario Bortolotto, Piero Buscaroli, Teodoro Celli, Fedele d'Amico, Eugenio Gara, Massimo Mila, Eugenio Montale, Giorgio Vigolo.
Nell'inverno del 1989 scesi al Teatro Massimo di Palermo a sentire un'opera scomparsa dai cartelloni, La Wally di Alfredo Catalani. Era un compositore chiave nel clima della Scapigliatura italiana che guardava a Nord, innestandosi in un sentire naturalistico che sarebbe stato proseguito dai membri della Giovane Scuola Italiana, in quel calderone che genericamente si definisce «verismo». L'originalità di Catalani, il suo spirito impregnato dai modelli dell'opera romantica tedesca, la scrittura ruvida e sapiente, l'essere stato reietto e definito esangue solo perché stroncato giovane dalla tisi, erano esche per nutrire gli strali di Isotta, non solo verso la quasi totale maggioranza dei «colleghi» che ignoravano il musicista e il suo contesto, ma anche verso il più recente biografo del Catalani, quasi vergognoso di avere scritto una monografia informata di un musicista che le damazze dei salottini schernivano per sentito dire.
Commisi l'imprudenza di riferirmi a un giornalista definendolo «collega». Isotta mi fulminò: «Io non ho colleghi!». Poi cambiò argomento, e con associazioni volanti finì con una filippica in difesa di altri condannati dalla storia dei vincitori: gli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida («Due martiri»). Quando riferii la mia ingenuità a chi conosceva bene Isotta, fui edotto non solo sulle idee politiche, allora impronunciabili per il conformismo totale della cultura musicale italiana, ma anche sul suo gusto per la polemica, per la contraddizione, per il piacere nell'imbrattare i nomi più in auge del canto e del podio.
Il suo tono di voce scandito, aulico-partenopeo e il fatto che parlava di interpreti e musicisti antichi come li avesse conosciuti da sempre, mi avevano fatto pensare a un uomo maturo: aveva solo 39 anni. Forse perché aveva bruciato le tappe: con i calzoni corti girava come fosse un veterano per i palchi del Teatro di San Carlo di Napoli (che giustamente reputava il più bello del mondo, almeno fino ai recenti restauri che ne avevano compromesso in parte la straordinaria, miracolosa acustica) allora governato dal suo più illustre Sovrintendente, il commendatore Pasquale Di Costanzo; a 24 anni aveva assunto la critica musicale del nascente Giornale, chiamato da Indro Montanelli, su suggerimento nientemeno che del grande anglista Mario Praz; nel 1980 il salto al Corriere della Sera, quando l'arrivo di un critico da/di destra sollevò l'indignazione salottiera da Corso Venezia a Via Solferino, con raccolta di firme della cintura gauchista che portò alla nomina di un altro critico che garantisse le lodi degli allora padroni della Scala, e il confinamento del titolare negli elzeviri.
Nel mentre Isotta curava con Piero Buscaroli le ultime due importanti collane biografiche musicali approntate da due grandi editori, «Musica e Storia» presso Mondadori e le monografie Rusconi. Libri di grande spessore vennero tradotti o pubblicati per la prima volta: la gran biografia dei due Scarlatti, Alessandro e Domenico, di Roberto Pagano, Mozart padre e figlio di Florian Langegger, La musica e la magia di Jules Combarieu, la piccola ma densissima monografia su Mahler di Deryck Cooke, I Bach. Storia di una dinastia musicale di Karl Geiringer; fra i rusconiani almeno il Debussy di Lockspeiser, il Mahler e lo Strauss di Quirino Principe. Durante la professione critica Isotta aveva limitato la prepotente vena saggistica a raccolte (Il ventriloquo di Dio, Le ali di Wieland), per poi dedicarsi nell'ultima stagione dell'amara uscita dal Corriere, a libri autobiografici con personali giudizi universali e alle colte meditazioni sulle sue passioni classiche e recenti (La dotta lira: Ovidio e la Musica, Il canto degli animali, Verdi a Parigi).
Sotto la direzione di Paolo Mieli, Isotta riprese la piena titolarità della rubrica al Corriere, dal quale non cessò di minacciare il lettore su quanto avrebbe dovuto sapere intorno a tanti musicisti, soprattutto quelli negletti o bollati dalla congiura del silenzio. E si divertiva col suo periodare fluviale, la costruzione ciceroniana, a mettere in difficoltà chi aveva bevuto la stentatezza sintattica e la confusione mentale del predecessore. Fregiandosi come di una medaglia di essere considerato un passatista dalle meno influenti ma sempre presenti ninfe egerie colla erre moscia, si lanciava in peana di compositori maltrattati: Mascagni, Umberto Giordano e il napoletano Franco Alfano; gli autori del '700 che Riccardo Muti proponeva alle annoiate orecchie degli abbonati scaligeri: Pergolesi, Paisiello, Gluck, Cherubini, il suo adorato Rossini serio e Mozart; e si apriva vieppiù alla considerazione di tutta l'opera di Verdi.
Aveva un tallone d'Achille scoperto: l'amore sviscerato per Napoli e per la sua cultura. Chi era reo d'ignoranza, recava sfregio al suo credo nel teatro, nella poesia, nella musica napoletana; era un insulto al suo essere napoletano colto, alla sua educazione che aveva imparato in famiglia e al Conservatorio di San Pietro a Majella con il Maestro Vincenzo Vitale.

Durante un Festival di Spoleto lo richiamai sul suo atteggiamento partenocentrico e sul suo dispregio per chiunque non fosse nato nella terra campana, quando con Giovannino Russo e Achille Bonito Oliva avevano iniziato a lanciare fuochi d'artificio come in una Piedigrotta verbale. A me dell'Alta-Italia ricordò il motto di Flaiano (si è sempre terroni di qualcuno a nord) all'incontrario.

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