Da Napolitano agli esperti: tutti glorificano la «crosta»

Abbagliati dal (finto) Leonardo. La "Tavola Doria viene esposta in pompa magna al Quirinale e accompagnata da un sontuoso catalogo. Ma non c'entra nulla con Da Vinci. E i critici lo sanno

Da Napolitano agli esperti: tutti glorificano la «crosta»

Quale possa essere la ragione per la quale persone colte e stimabili, anche se forse non compiutamente esperte di pittura del Rinascimento, si avventurino nella pomposa presentazione di un dipinto, non so se più insignificante o più imbarazzante, resta un vero e proprio mistero.

Il carico principale se lo è assunto un dotto archeologo, consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, Louis Godart; ma al coro di tripudio per «il rientro di un grande capolavoro» partecipano tanti altri, con note, affermazioni, gridolini di entusiasmo, affidati a un catalogo or ora sontuosamente e imprudentemente pubblicato.

Inizia lo stesso Giorgio Napolitano, padrone di casa, giacché «il grande capolavoro», la cosiddetta Tavola Doria, è ospitato con tutti gli onori nel Palazzo del Quirinale: «L'Italia è tornata in possesso di un capolavoro universalmente citato». In verità, non c'è un solo studioso di pittura italiana (se non nell'equivoca mitografia di Leonardo) che si sia occupato dell'opera, o che l'abbia citata con qualche interesse. Nell'unica mostra in cui fu esposta, a Milano nel 1939, la tavola è registrata come opera di un maestro toscano. Segue un testo, evidentemente inconsapevole, di Lorenzo Ornaghi, ministro per i Beni e le Attività Culturali: un pastone di banalità e di compiacimento. Non può mancare una nota celebrativa di Leonardo Gallitelli, Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, che fa riferimento «alla importante restituzione al patrimonio culturale italiano della Tavola Doria», mostrando d'ignorare quanti veri capolavori ci siamo lasciati sfuggire, nell'assoluta indifferenza, come io ho tante volte denunciato, perché non accompagnati dal falso nome di Leonardo che, in questa occasione, è il convitato di pietra, la ragione reale della patetica impresa.

Non ce n'è traccia nell'accorto intervento di un altro papavero, Roberto Cecchi, oggi sottosegretario al ministero ma in passato Segretario Generale del Mibac, che promosse l'acquisto del tanto discusso Crocifisso attribuito a Michelangelo, e ora si compiace senza esporsi. Come invece fa, improvvidamente, l'architetta che lo ha sostituito nella funzione tecnica: Antonia Pasqua Recchia. La quale, nulla vedendo e nulla sapendo, ravvisa nella grottesca, inutile e mortificante impresa, «molti aspetti, tutti positivi», e aggiunge anche il suo «personale turbamento»: «anzitutto e soprattutto emerge il valore del dipinto, la cui bellezza emoziona al primo sguardo... ed è una gioia sapere che una simile opera è rientrata nel nostro Paese, parte del nostro patrimonio culturale, per poter essere ammirata da tutti e studiata dagli specialisti». I quali, invece, e pour cause, la ignorano, essendo un'opera insignificante e con un valore oscillante tra i 3 e i 4 mila euro, come un frammento di pittura da carretto siciliano cui è assimilabile.
È la stessa Recchia a farci capire che l'operazione, che era stata sventata agli Uffizi, quando, lei ignara, la Sovrintendente del Polo museale, meditava di esporre la «crosta» a Firenze, è cresciuta fino a diventare «una lunga, complessa e assai delicata operazione, che ha richiesto una intensa interlocuzione con soggetti e Stati esteri, che ha dato prova di straordinaria professionalità e di coesione interistituzionale» (sic), quando è intervenuta la magistratura. Ed ecco allora che, al coro, si aggiungono Giancarlo Capaldo, Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Roma, e Patrizia Ciccarese, Sostituto Procuratore. Così, mentre il mondo degli esperti sapeva da anni della bufala, i magistrati romani furono «evocati», tecnicamente, da due marescialli dei Carabinieri, soltanto nella primavera del 2010.

Capaldo scrive nel catalogo le più sensate osservazioni, ma non fino al punto dall'astenersi per incompetenza, o chiamare qualche vero esperto come consulente della Procura per avere una buona giustificazione per lasciare perdere. Invece ci casca. E, da persona sensibile, ci spiega anche perché: «La caccia a un'opera d'arte scomparsa è una impresa piena di fascino e di emozione». E ancora, con disarmante onestà, rivelando l'arcano di tanta inutile agitazione, propria dei dilettanti e degli inesperti, che s'incantano al suono dei grandi nomi: «Qui mi limito a questo breve cenno solo per spiegare come la possibilità che l'opera fosse di Leonardo avesse fatto scattare nei carabinieri e in me un intenso coinvolgimento sconfinante in una sorta di frenesia». Comincia così, inutilmente e con dispendio di soldi ed energie, una caccia che lo stesso Capaldo assimila alla «scena finale del film I predatori dell'arca perduta».

Questo ci racconta il Procuratore aggiunto. Ed immaginiamo allora viaggi di carabinieri, magistrati, sostituti, dirigenti del ministero, in Europa, Stati Uniti e Giappone, con questo risultato: «La caccia si è conclusa con soddisfazione lasciando in tutti... l'orgoglio di aver restituito all'Italia un'opera di immenso valore artistico e, forse, addirittura, l'opera di un genio». Le conclusioni (e anche le premesse) non potrebbero essere più errate, perché l'opera non è di «immenso» valore, e non è stata realizzata da un genio.
Seguono nel bel catalogo Cangemi il saggio, prevalentemente storico, di Louis Godart, che non si sbilancia sull'autore della tavola, parla quasi esclusivamente del «messaggio politico» della battaglia di Anghiari, e si lascia sfuggire soltanto una volta la parola «capolavoro», pur non sottraendolo all'anonimato.

Si sbilancia di più, sulla base di «indagini scientifiche», Claudio Falcucci, ipotizzando l'esecuzione «di un pittore che aveva frequentato la bottega di Leonardo», o perfino di Leonardo stesso, autore di un disegno-memoria della non completata impresa in Palazzo Vecchio. Eppure lo stesso Falcucci, mettendo le mani avanti, osserva: «Sono personalmente convinto che l'utilizzo a scopi attribuzionistici delle indagini scientifiche costituisca, nella generalità dei casi, una forzatura». Proprio così.

Chiude la disperata letteratura sull'inutile ritrovamento un utile contributo di Fabio Isman, studioso-detective: Come e quando siamo arrivati a quel bunker. Un diario della «caccia», in taluni momenti perfino comico. Come sempre Isman è il più concreto, un vero cronista, divertito e appassionato, ma non si sporca le mani. Dei due marescialli che ha visto in azione riferisce gli stati d'animo. Il primo, agricoltore mancato: «Non m'intendo d'arte, non è il mio mestiere, sono uomo della terra. Ma come l'ho vista, ho pensato a Leonardo: la Tavola Doria è davvero troppo bella. Sia un originale, o una copia, per noi non fa differenza». Per me, sì; e per qualunque studioso che non voglia perdere tempo.

Il secondo maresciallo: «Ho tirato un sospirone di sollievo e provato una grande pace interiore: una tranquillità dentro». Io invece ero molto inquieto: quando Alessandro Nicosia mi ha invitato alla presentazione della Tavola Doria non ci volevo credere. Sapevo che Federico Zeri aveva rifiutato la perizia del dipinto, che riteneva una «crosta», come mi disse nel 1978. Da allora nessuno studioso si è pronunciato. Come nessuno studioso, se non l'archeologo Godart, ha scritto nel catalogo (sarebbe come affidare a un illustre ortopedico un'operazione di cardiochirurgia). Ci sarà una ragione?

In conclusione: la Tavola Doria non è di Leonardo, non è un capolavoro, non è opera di un maestro toscano del '500.

È una modesta e sgradevole patacca di un pittore del '600, rimaneggiata nei recenti restauri, come si può vedere al confronto con la fotografia degli anni '50 di Girolamo Bombelli, utilmente allegata da Isman. Un'opera scolastica, goffa, meccanica, ripetitiva, d'infima qualità.

E pensare che al Quirinale era passata, felice e distratta, la Dama dell'Ermellino. Leonardo sorriderà.

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