"Oggi arte e scienza devono risposarsi Nel nome di Dante"

Il genetista ha scritto con il letterato Massimo Arcangeli un saggio sulla necessità di sintetizzare le due culture «Le nozioni scientifiche si insegnino alla scuola materna»

Dante Alighieri (Wikipedia)
Dante Alighieri (Wikipedia)

Siamo nella parte finale del XXXIII canto del Paradiso. Dante riflette sul proprio percorso, e si lascia andare a una dichiarazione di pacata esultanza: «La forma universal di questo nodo/ credo ch'i' vidi, perché più di largo,/ dicendo questo, mi sento ch'i' godo». Dove per «nodo» possiamo intendere l'intero Creato. Cioè: proprio il grande godimento che io provo mi conferma di aver percepito la «forma universal». È la pacata esultanza dell'artista giunto a dare forma compiuta alla propria opera. La stessa pacata esultanza dello scienziato giunto alla comprensione di qualche meccanismo del mondo. In questo «nodo», invenzione e scoperta si abbracciano. Ma la Commedia , per quanto detta divina , è l'opera di un uomo, e un uomo da solo non può indirizzare il corso della Storia. Però la Storia dice che arte e scienza, a un certo punto, si divisero. A riannodare il filo del discorso interrotto, in collaborazione con i versi di Dante, si provano ora un linguista e uno scienziato, Massimo Arcangeli ed Edoardo Boncinelli. La loro sfida si intitola «La forma universal di questo nodo». La cultura di Dante . Il libro, edito da Le Monnier - Mondadori Education, uscirà in ottobre, e domani a Sora ne parleranno i due autori, nell'ambito del Festival delle Storie.

Professor Boncinelli, quella divisione avvenuta in epoca rinascimentale (seguita dalle specializzazioni ottocentesche), è stato un male necessario?

«Si chiama Rinascimento proprio perché vede “rinascere” la voglia di vivere, di riprodursi, di pensare con la propria testa. E il modo migliore per “rinascere” è dare un contributo alle scienze. Anche se l'esplosione della scienza avverrà soltanto nel Seicento. Ma i vantaggi sono reciproci. L'arte, non essendo più schiava dei procedimenti tecnici che ne limitavano l'azione, può narrare meglio il mondo».

È un'eccessiva semplificazione dire che l'arte (e la letteratura in particolare) si rivolge al passato, mentre la scienza si rivolge al futuro?

«La scienza non può che guardare al futuro. Il futuro è il suo orizzonte. La letteratura non è obbligata a farlo. Ma può farlo. L'ha fatto con alcuni grandissimi che vanno oltre il loro valore letterario. Dante, appunto. E Shakespeare. E Proust...».

Forse arte e scienza sono sempre andate d'accordo su un punto: è l'individuo che inventa e che scopre. Nella «Prefazione» del vostro libro dite che oggi il genio «non ci parla più», e che «gli è subentrato un insapore gusto collettivo»...

«È una questione... di gusto. Oggi che molti parlando di scienza, la gente probabilmente rimpiange la lezione individuale del singolo. D'altra parte, per esempio il sociologo Domenico De Masi parla di “creatività collettiva”. Comunque io ritengo che la creatività sia di uno o di pochi. Da qui l'importanza della didattica».

A proposito di didattica, che cosa si deve fare per diffondere meglio il sapere scientifico?

«Due cose. Anticipare alla scuola materna alcune nozioni che coltivino nel bambino la forma mentis scientifica. E poi rendere la spiegazione della scienza una grande avventura intellettuale. Maestri e professori non devono far ammosciare gli studenti, devono agire come Galileo, secondo Leopardi il maggior narratore italiano, o come Leopardi stesso, o come Einstein...».

Nel libro si auspica che l'etica torni ad appropriarsi dell'estetica. L'etica è dunque la sintesi fra le due tesi della letteratura (dell'arte) e della scienza?

«L'etica è ciò che dà senso al mondo e alla nostra azione. Un tempo l'arte era tutt'uno con l'etica, poi c'è stato il “divorzio” tra valore sacrale dell'arte da un lato e produzione artistica in serie. E questo ha nuociuto all'arte contemporanea».

Oggi arte e scienza sono minacciate, la prima dal ritorno dell'iconoclastia (vedi Isis e simili), la seconda dalla banalizzazione, dalla volgarizzazione forzata dei temi scientifici.

«Vero. Ma questi due modi di agire sono originati da due esigenze, se vogliamo chiamarle così, diverse. Distruggere l'arte è un modo per cancellare il passato. Essere scettici di fronte alla scienza significa tentare di rallentarne il corso».

Quali potrebbero essere, nel prossimo futuro, i punti di contatto fra letteratura e scienza?

«Non so prevederlo, né è possibile programmarlo. Ci sono autori come Calvino e McEwan i quali hanno lavorato consapevolmente per tale ricongiungimento. E altri, penso a Gadda o a Montale, che lo hanno fatto in modo inconsapevole».

Quindi non come Dante, il più scienziato fra gli uomini di lettere...

«La grandezza di Dante è inarrivabile. A provarlo bastano due fra le sue intuizioni più clamorose. Lui è davvero convinto che da qualche parte, nell'universo, ci sia una rappresentazione superiore dell'universo stesso. Una rappresentazione, capisce? Un'opera, un simbolo del Tutto. E poi... Ecco... io sono biologo, come lei sa. E trent'anni fa, con Antonio Simeone ho scoperto i geni omeotici nell'uomo, cioè gli “architetti” che progettano lo sviluppo dell'organismo. Ma non soltanto nell'uomo, in ogni organismo. Ebbene... nel Canto X del Purgatorio leggiamo: “non v'accorgete voi che noi siam vermi/ nati a formar l'angelica farfalla/ che vola a la giustizia sanza schermi?”. Questo è Dante. Forse l'uomo più presuntuoso della Terra, ma si presentava come il più umile».

Da buon scienziato, verrebbe da dire. Professore, il suo prossimo libro?

«Voglio scrivere con Giulio Giorello un libro su Leopardi come filosofo e poeta. E anche qui la scienza giocherà un ruolo importante».

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