Il paradosso del Sessantotto. Era già morto negli anni '20

Prima sogni e ozi, amori e rivolte, tante arti e pochi mestieri. Poi la condanna al lavoro d'ufficio. La perdita dell'innocenza del ribellismo anticipata con poesia e disincanto

Il paradosso del Sessantotto. Era già morto negli anni '20

Volle farsi chiamare Nescio, che in latino significa «io non so», mentre in genovese significa più «idiota» che «ignorante», più «stupido» che «incompetente». Invece, aveva capito tutto. E con almeno mezzo secolo di anticipo. Aveva capito dove sarebbero andati a parare, in ordine cronologico, le proteste anarchicheggianti dei provos , le rivolte dei sessantottini, i semi libertari gettati ovunque dai figli dei fiori (tulipani, nello specifico), il neo-tremendismo arrivista degli anni '80 e via rivoluzionando. Lo aveva capito perché aveva sperimentato in prima persona che i giovani sognatori si svegliano in un ufficio.

Magari in un ufficio della Holland-Bombay Trading Company, il suo ufficio, dove fece carriera e divenne addirittura codirettore, abbandonandolo per motivi di salute nel 1937, a 55 anni. E il bello è che lui, all'anagrafe di Amsterdam Jan Henrik Frederik Grönloh, dopo aver capito tutto questo lo mise nero su bianco con la puntualità dell'impiegato, andando a ritroso, cesellando ricordi, mungendo le vacche frisone della memoria, passeggiando da flâneur lungo i canali delle rimembranze. Sapeva, dunque, e sapeva scriverlo, andando sul largo e sullo stretto, pennellando i paesaggi dello Zuiderzee, il mare interno della sua Olanda, e abbozzando sketch di interni molto bohémien .

È una bellissima scoperta, questo Nescio sapiente finora ignorato dai nostri editori, per i lettori italiani che si procureranno le sue Storie di Amsterdam (Iperborea, pagg. 210, euro 16, traduzione di Fulvio Ferrari). Alla compagnia di giro che incontriamo possiamo dare un nome collettivo: Gioventù. Una Gioventù che, se non si brucia come il mitico James Dean, sicuramente si scotta quanto basta per venire a più miti consigli. Ma è la ruota della vita, non ci si può far nulla. «Fu un'epoca meravigliosa. A pensarci bene, è un'epoca che deve durare ancora adesso, durerà sempre finché ci saranno ragazzi di diciannove, vent'anni. Ma per noi è finita da un pezzo».

Infatti, Lo scroccone del primo racconto, Japi, nullatenente e nullafacente che andava a zonzo nel sole e nella pioggia, a un certo punto... «Si era messo ad ammazzarsi di lavoro. Quasi diventava socialista. Aveva sudato per guadagnarsi il pane, era stato braccato, braccato e assillato, dalla gente e dalla necessità, come tutti gli altri». E il pittore Hoyer? Dopo anni a inseguire il quadro perfetto, s'era iscritto al partito socialdemocratico e «spendeva un bel po' di soldi per abitare nella camera ammobiliata di una rispettabile vedova con tre cognomi, in un appartamento che condivideva con un'avvocatessa e un funzionario coloniale in congedo, con moglie e figlio». E Bekker? Può dirsi fortunato: «Ha un bravo principale, che lo rispetta perché ha tradotto Dante». E Kees, nella soffitta del quale si riunivano ogni sera a bere grappa di ginepro e a fumare sigari da due centesimi i Giovani titani ? Anch'egli si è imborghesito, «continua a trottare per l'azienda del gas» dove l'ha infilato suo padre. L'altro artista del gruppo, Bavink, lui no, non ha strappato un pareggio nella partita della vita: «Ora si trova in una clinica per malati di nervi. È molto tranquillo. Guarda solo in alto, verso il cielo, o scruta l'orizzonte o si mette a fissare il sole finché gli occhi non gli fanno male». Quanto a Koekebakker, il Narratore, alter ego di Nescio, «è diventato un uomo saggio e pacato. Si limita a scrivere, incassa il suo modesto salario e non dà fastidio a nessuno».

Fra il Diario del seduttore di Kierkegaard e il dantesco «Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io...», fra il baudelairiano Spleen di Parigi e la Fame di Knut Hamsun, le Storie di Amsterdam sono il ritratto dal vivo di esistenze non romanzescamente fallimentari, bensì straordinariamente comuni: la parabola che al suo culmine regala le più dolci illusioni, presto scende precipitosamente al livello del perbenismo. E in Il piccolo poeta , scritto nel terzo anno di guerra, cioè nel '17 (tutte le prose risalgono agli anni Dieci e Venti), Nescio ci dice che non possiamo affidare i nostri destini né a Dio, uno svagato signore con grandi favoriti grigi e pantaloni troppo larghi, né al Diavolo che s'accarezza i bernoccoli in un caffè mettendo in imbarazzo, con sguardi insistenti, una bella signora con bambina. È la moglie di Eduard, il piccolo poeta, quel prelibato bocconcino.

Il piccolo poeta che fa innamorare di sé la giovanissima cognata Dora. Ma non sta bene, non si può, non si deve... I giovani di ieri, di oggi e di domani lo sanno bene che è colpa della società se s'addormentano sognatori e si svegliano impiegati.

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