Paul Torday trova il suo Graal nelle «stimmate» di un bambino

Non aveva ancora finito di parlarci, Paul Torday, con la sua voce pacata ma ferma, ironica ma serissima. Credevamo che Colazione all'Hotel Déjà-vu , di cui abbiamo scritto su queste pagine nell'aprile scorso, sorta di mesto arrivederci imperniato sul senso impalpabile della vita, fosse l'ultima parola dello scrittore inglese morto il 18 dicembre 2013. Invece no. Ecco qui, in uscita il 23 febbraio, quel che gli restava da dire.

In odor di santità, verrebbe da aggiungere, chiarendo subito che la santità non è la sua, bensì quella del Theo del titolo (Elliot, pagg. 142, euro 16,50, traduzione di Federica Alessandri), un bimbo di nove anni dotato della stessa gioia di vivere dei suoi coetanei, ma anche, purtroppo, da inattuali, pesantissime stimmate. «Purtroppo» non lo dice ma lo pensa il protagonista del romanzo, John Elliott, il parroco scozzese che si trova, vestito da una vocazione troppo leggera per affrontare le intemperie della sua professione, a esercitare in Inghilterra. Certo, la chiesa intitolata a San Giuseppe d'Arimatea che gli è stata affidata si trova in una cittadina non molto distante dal Vallo di Adriano, ma laggiù sia il massiccio e insoddisfatto religioso, sia la sua dolce mogliettina Christine, insegnante nelle limitrofe scuole elementari, da due anni non si trovano a loro agio. Lei perché la direttrice è una tipa troppo politically correct e nega addirittura il permesso di celebrare la Pasqua in chiave cristiana in ossequio, non richiesto, alle differenti etnie e religioni di alcuni scolari. Lui perché è dura mandare avanti la baracca, peraltro cadente, quando i clienti ( pardon , i fedeli) che si presentano alla messa della domenica non sono mai più di sedici. Figlio a sua volta di un pastore, John le sue pecorelle non le ama, tutt'al più le sopporta, soprattutto quando si abboffano di tartine e di vino a casa sua.

E poi c'è quel Theo... In un altro libro di Torday, Una luce nella foresta , in Italia targato Elliot come tutti gli altri, compreso il più famoso, Pesca al salmone nello Yemen , compariva un Theo. Ed era, guardacaso, una specie di angelo. Le ferite che questo nuovo Theo presenta, misteriose repliche delle Cinque Ferite di Cristo, si attagliano più alla Chiesa cattolica che a quella anglicana o scozzese, riflette il prete che rimpiange la sfumata carriera di rugbista. Non vanno d'accordo né con la sua inadeguatezza al ruolo, né con il grigio tran-tran della piccola comunità di provincia. Come interpretarle? Come gestirle? Che sia meglio tagliare la testa al toro, e al Diavolo che ci mette lo zampino instillando in tutti il dubbio che siano semplicemente i segni delle percosse subíte in famiglia, scrivere al vescovo una bella letterina di dimissioni e cambiar vita? In fondo Giuseppe d'Arimatea è quello del Graal. È un segno anche questo. Vuol dire che il Graal del parroco fuori posto John Elliott è quello della normalità.

Perché i misteri della fede sono come i miracoli, servono soltanto a chi ci crede.

Ancora una volta Torday ha fatto centro. Arrestarsi un passo prima di spiccare il volo sopra il precipizio mistico è un esercizio di laica saggezza, e di rispetto per angeli e santi veri.

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