Processo a Carl Schmitt, il nazista «riluttante»

Pubblicata una lunga intervista del 1971 in cui il pensatore tedesco risponde sul suo filo-hitlerismo. E spiega perché ogni adesione al potere sia una scommessa estrema

Di processi sommari a importanti rappresentanti della cultura più o meno collusi col nazismo, se ne sono contati a decine. Nei mesi passati è tornata in auge la vicenda di Heidegger e dei Quaderni neri sui quali, peraltro, si stanno ora addensando nubi sulla oggettività del curatore Peter Trawny. Ma in linea di massima sono sempre indagini avvilenti per il loro marcato profilo ideologico.

Assume perciò una certa rilevanza l'intervista dello storico Dieter Groh e del giornalista Klaus Figge a Carl Schmitt, trasmessa da una radio tedesca ed ora tradotta da Corrado Badocco per Quodlibet con il titolo Imperium . Quattro audio nastri formati da diciassette spezzoni di conversazione la cui trascrizione integrale in forma di libro è corredata, per volere dello stesso Schmitt, da una mole consistente di note, documenti autobiografici, citazioni e informazioni bibliografiche. È infatti uno Schmitt ultraottantenne quello che, nel 1971, si sottopone a queste domande e che, con puntigliosità professorale, fa addirittura aggiungere al testo riferimenti ricavati dai propri diari stenografici. Una scrupolosità che, pur insinuandosi tra le maglie di queste trecento pagine, non occulta la questione centrale della sua vita ed esce continuamente allo scoperto: «Perché ha partecipato al potere politico di Hitler?».

Ma Schmitt non vuole per l'ennesima volta fornire chiarimenti su singoli momenti e scelte specifiche, come magari si evince da Risposte a Norimberga , il volume che raccoglie i verbali dei tre interrogatori condotti da Robert Kempner, il giurista che istruì l'incriminazione per crimini di guerra. Questa volta, al contrario, le spiegazioni le vuole opportunamente diluire in tutto il libro per articolarle in un contesto che, però, pur affascinando gli interlocutori continua a non convincerli del tutto sul piano delle ambiguità etiche.

Tuttavia, come con la realizzazione di un mosaico di cui si intravvedono i risultati solo quando ci si approssima alla fine, allo stesso modo vuole che le sue ragioni vadano ricomprese in un quadro d'insieme da cui non si devono utilizzare solo singole parti. Una adesione di quel tipo aveva infatti bisogno di una motivazione strutturata intorno ad un profilo filosofico-giuridico. E per tessere questo ampio quadro di rimandi invita sin da subito i due intervistatori a riformulare in modo diverso la domanda di fondo. Non più «perché ha partecipato al potere politico di Hitler?» ma «perché ha partecipato al potere?» dato che è lungo il crinale di una complessa filosofia della storia e intorno al concetto di potere che vuole motivare l'adesione.

I suoi non sono ricordi di un reduce ansioso di discolparsi ma di un protagonista di scelte che necessitano una chiave di lettura metafisica e, soprattutto, all'interno di una particolare concezione del diritto pubblico. Nei vari capitoli, in cui si percorre la sua vicenda personale, si intravede un filo rosso che dall'infanzia trascorsa «nella diaspora cattolica» fino alla questione definitiva del katechon, la forza che trattiene l'Anticristo, svela il continuo rimando all'essenza del concetto di «potere» e che fende come una lama tagliente gli eventi che portano la Germania da Weimar alla nomina a Cancelliere di Hitler.

Schmitt si muove in punto di diritto per circoscrivere lo snodo tra legalità e legittimità all'interno del quale si incuneò Hitler che, appunto, utilizzando gli istituti della legalità costituzionale, la abolì, per poi dichiararsi nuovo custode della costituzione. E qui non solo ritorna il tema della «decisione» ma, in maniera più nascosta, la questione metafisica tra il potere che frena e l'apocalisse che sta per sopraggiungere.

La scelta giusta verterebbe proprio verso l'Imperium, vale a dire un potere centralizzato che proteggerebbe dalle forze del caos perché Schmitt, come spiegano i due intervistatori, era convinto che «laddove la legittimità non giustifichi la legalità, il comportamento legale non ha neanche bisogno di essere giustificato col diritto».

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