Quando Jack Kerouac credeva che il mare fosse la sua strada

Arriva in Italia il romanzo giovanile del geniale creatore di On the road. Racconta di mercanti, marinai coraggiosi e libertà cercata tra le onde

Quando Jack Kerouac credeva che il mare fosse la sua strada

Spesso ci si chiede cosa ha voluto dire per uno scrittore avere vent’anni. Per Jack Kerouac, nato nel 1922 da una famiglia di origine bretone in una cittadina industriale del Massachusetts, avere vent’anni significò imbarcarsi come sguattero su una nave mercantile diretta in Groenlandia, il Dorchester, tra la fine dell’estate e l’ottobre del 1942. In piena guerra, mentre i sottomarini tedeschi infestavano l’Atlantico. L’anno dopo, congedato dal servizio militare perché trovato affetto da schizofrenia, il futuro maestro della Beat Generation, scrisse un romanzo ispirandosi alla propria esperienza sul Dorchester, con il bellissimo titolo di Il mare è mio fratello. Rimasto incompiuto e sconosciuto, il romanzo viene ora alla luce per le cure di Dawn M. Ward, in un Oscar mondadoriano (pagg.390, euro 11) che comprende anche altri scritti giovanili, tra cui un interessante Diario di un egocentrico, e la ricchissima e fervida corrispondenza con Sebastian Sampas, il «Principe di Creta», un amico fraterno di origine greca destinato a morire in guerra nel 1944.
Sampas è parte decisiva di quella cerchia di «Young Prometheans» raccolta intorno al giovane Kerouac e impegnata a promuovere la fratellanza umana in un vortice di riferimenti culturali che vanno da Shakespeare a Goethe, da Byron a Tolstoj, da Saroyan a Wolfe, sino allo Spengler del Tramonto dell’Occidente, già così amato da Henry Miller.
Kerouac in quegli anni è in cerca di se stesso, sia come uomo sia come scrittore. Ottiene una borsa di studio per l’università per meriti sportivi, ma è già un gran bevitore e consumatore di droga. Sessualmente è in bilico tra una eterosessualità ostentata e una latente omosessualità. Attratto dal nomadismo, è pronto a tornare ciclicamente dalla madre. È un ribelle vitalista e anarchico, sospeso tra individualismo e utopismo sociale, che vede lo splendore della vita dovunque, ma soprattutto nell’assolutizzazione della giovinezza e della energia che spinge a diventare scrittori. Dice in una lettera del febbraio del 1942: «Quando compio trentatre anni mi ficco una pallottola in corpo». E dichiara di lavorare 14 ore al giorno 7 giorni su 7, di avere momenti di estasi davanti alla macchina da scrivere.
Il mare è mio fratello, questo splendente spezzone di romanzo giovanile, mostra già i segni di quello che Kerouac diventerà, e nello stesso tempo ha una sua autonomia nella scelta del genere, il romanzo di mare, quello in cui eccelsero Conrad, Melville, Stevenson e il Kipling di Capitani coraggiosi. Scelta che non tornerà nel Kerouac maggiore. La prima parte, che si svolge nello «spirito carnevalesco della New York di mezza estate», serve a mettere a fuoco i due personaggi più importanti del libro, il marinaio Wesley Martin e il professore Bill Everhart, nei quali probabilmente Kerouac si divide e si specchia. Wesley è un bel giovane, sigaretta in bocca, andatura strascicata, aria di distacco superbo, che ha speso a terra 800 dollari in due settimane di baldoria, tra alcool, ragazze, albergacci di Harlem dove smaltisce le sbornie e locali dove ascolta jazz, nervosa e ritmica musica di fondo di queste pagine. Bill, che insegna letteratura all’università e si sente un profeta senza certezze, «un miserando disastro d’uomo», a contatto con Wesley prova un acuto e sin troppo improvviso bisogno di fuga. Da professore diventa sguattero sulla nave mercantile Westminster, ma continua a impancarsi in discorsi intellettuali, rivelatori di quella che sarà l’etica dei Beat, ora sul movimento progressista «che non provvede in alcun modo allo spirito», ora sull’antifascismo che, una volta distrutto il fascismo, lascerà che l’uomo rimanga come prima, pronto a ingannare, rubare, uccidere, stuprare. Tra i marinai, spicca Nick Meade, espulso dall'università per estremismo, combattente in Spagna dalla parte dei repubblicani. E poi il bellissimo Danny Palmer, l’«Avvenente Marinaio» il cui modello è in Billy Budd di Melville, Curley il texano che è ubriaco da dieci giorni di fila, Joe l’attaccabrighe, il mastodontico cuoco Glory.
Molto riuscite le pagine sulla potenza del piroscafo, sulla partenza, sui fari «ultimi avamposti della società», sulle lontananze dove l’orizzonte, la caligine e l’oceano «verde bile» si confondono. Il mare apre un’utopica era di pace, di bellezza, di libertà per chi lo sa amare, per chi ne accetta lo stile di vita, fatto di uguaglianza, condivisione, cooperazione, serenità collettiva, «una robusta fratellanza d’uomini». La scena su cui il romanzo si interrompe vede il panettiere di bordo pregare davanti a una Bibbia con i marinai in ginocchio lì intono, e Wesley, in piedi, che se ne va a prua, come se volesse pregare il vento, che gli spinge la sciarpa furiosamente «all’indietro come una fiamma».
Durante il viaggio in autostop sino a Boston, Wesley aveva detto a Bill: «dopo l’odore dell’acqua salata, il mio preferito è l’odore dell’autostrada». Sembra una profezia, una predestinazione.

Kerouac, che pure si imbarcò altre due volte dopo l’avventura sul Dorchester, non scriverà più di mare. E nell’immaginario collettivo diventerà l’autore che ha meglio raccontato vita e vagabondaggio «sulla strada», come nel titolo del suo libro che ha fatto epoca.

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