Quando Stille dettava l'Italia prendeva nota

Alexander, il figlio del grande Ugo, dedica un libro al padre. Che fu esempio inarrivabile di chiarezza e profondità d'analisi

i con Ugo Stille
i con Ugo Stille

Esce da Garzanti un saggio di Alexander Stille La forza delle cose (pagg. 467, 24 euro) dedicato al padre Ugo. Che fu un leggendario corrispondente dagli Stati Uniti del Corriere della Sera, divenendone da ultimo direttore. Solo chi ha vissuto i più lontani anni del quotidiano di via Solferino può dire e scrivere - scusate la presunzione - cosa Ugo Stille, Misha per gli amici, abbia rappresentato nella cultura e nel giornalismo italiani.
Nell'immediato dopoguerra, stagione di grandi stenti e di una primordialità tecnologica - che adesso susciterebbero ilarità in un bambino di due anni - lo Stille arrivava a sera inoltrata, per il cambiamento di fuso orario, via radio. Lo captava e trascriveva un'apparecchiatura che il Corriere aveva installato là dov'era il suo campo sportivo, vicino al cimitero di Musocco a Milano. Il più delle volte le cose non andarono molto bene, almeno all'inizio. Fosse colpa delle condizioni meteorologiche o fosse colpa di difetti del sistema, la prosa di Stille, nitida ed esauriente, approdava a Musocco a pezzi e bocconi, talvolta non approdava per niente. Michele Mottola, grande e ineguagliato regista del maggior quotidiano italiano, era disperato. Più di lui lo era soltanto un bravo tecnico, milanesone a 24 carati, attaccatissimo al lavoro, che al buon esito della missione pionieristica doveva sovrintendere.
Ma spesso e volentieri l'esito non era buono. L'amarezza del Corrierone era accresciuta dal fatto che - almeno stando a quanto al Corriere si mormorava - i messaggi di Stille erano captati a Roma dal Messaggero. Che un po' taroccandoli li pubblicava. Oltre al danno la beffa. Da inviatino - posto professionalmente molti gradini sotto Stille, e trovo che fosse giustissimo - seguivo con riservatezza doverosa ma con non meno doverosa partecipazione gli sviluppi e le repliche del dramma. Una sera, dovendo riferire qualcosa a Mottola, mi trovai alle spalle del già citato milanesone, che di cognome faceva Buffa. Lui aprì la porta del sancta sanctorum mottoliano, dalla poltrona in cui era sprofondato come un bonzo, Mottola lo investì con un interrogativo speranzoso e angosciato insieme. «L'abbiamo preso lo Stille?» Con lo sguardo di un segugio frustrato il Buffa rispose: «Sì, in d'i ciap», sì l'abbiamo preso nelle chiappe. Ma non c'era nulla d'offensivo e d'insultante in quell'esclamazione, solo la leale confessione d'una sconfitta.
Poi tutto cambiò, Stille continuò a scrivere come prima e meglio di prima ma poteva tranquillamente telefonare. Lo faceva dal suo rifugio nel palazzo del New York Times, elargendo al Corriere quelli che a me e non solo a me sembravano autentici capolavori di chiarezza e di sintesi. Lo vedevo quando veniva a Milano, ebbi modo di frequentarlo un po' di più dopo che fu nominato direttore, anche se io ero traslocato al Giornale. Ma in una occasione precedente ebbi modo di sperimentare cosa significhi essere - magari anche a tempo perso - un fuoriclasse.
Per un accordo con il Corriere e con la Rai partecipavo a una trasmissione in più puntate su La giustizia in Italia e nel mondo. Era prevista - e indispensabile - una tappa negli Usa. Avevano impegnato un bravo collega residente a New York perché preparasse materiale e incontri. Abbondanti, anzi sovrabbondanti, l'uno e gli altri. Ma avevo le idee confuse. Finché andai a trovare Stille, gli spiegai il motivo del mio viaggio, e lui chiarì tutto. «Sai Mario - disse, rammento quasi parola per parola - in Italia gli addetti, a cominciare dai migliori, ritengono che la giustizia sia un'entità suprema, un ideale cui il singolo magistrato deve tentare d'avvicinarsi tra lungaggini e cavilli. Una giustizia che cala dall'alto dei millenni. Negli Stati Uniti la giustizia viene dal basso, si ispira a quella delle carovane dei pionieri dove gli anziani si riunivano in giuria per punire le malefatte. È una giustizia che rispecchia e interpreta il costume, la “cultura”, i principi e anche le opacità e le discriminazioni, razziali o altre, della comunità. Alla quale i magistrati devono rispondere per i costi. Così si spiega anche il giudice elettivo, che può portare a decisioni aberranti». Mentre Stille mi regalava queste idee, qualcuno gli gridava che Milano era in linea, aspettavano il suo pezzo, e lui con un gesto pigro prendeva tempo «vengo subito, vengo subito». Dopo che ebbe telefonato uscimmo insieme per mangiare qualcosa lì vicino. Offrì lui, ma non fu una cena di gala. Mi rendo conto di quanto siano frammentari e irrilevanti questi miei ricordi.

E non vorrei aver l'aria di chi si accoda al rimpianto rituale «l'ultima volta che mi vide», «un giorno mi disse». Semplicemente mi sono sforzato, da vecchio giornalista, di spiegare, con qualche riga, perché Ugo Stille sia stato un mito, e tale rimanga nella memoria di chi l'ha poco o tanto frequentato.

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