
Càpita, nella vita, di assistere alla morte di qualcuno. Ma se questa morte non è violenta, difficilmente accade di comprendere davvero la fragilità del corpo umano. La prima volta che vediamo un corpo umano distruggersi e comprendiamo la sua totale esposizione, lo shock è totale. Da quel momento in poi ci viene inflitta un'ansia primitiva: il bisogno di accertarsi continuamente che nulla di male capiterà al corpo di chi amiamo, che solo ora sappiamo inguaribilmente indifeso.
La guerra così come l'ha vista Paolo Giordano può ridurre i corpi in stati inimmaginabili. Ma la stessa guerra è anche capace di restituirci una nudità del corpo a cui non siamo più avvezzi. Tra le viscere e il cervello si sono imposti pacifici schermi di silicio e silicone: oggi la naturalità del corpo ci appare addirittura disturbante.
Inviato in Afghanistan per Vanity Fair due anni fa, alla FOB Ice, confine sud della valle del Gulistan, Giordano ha guardato da molto vicino questa naturalità. E non si è permesso di non scriverne. Nemmeno se mille altre volte era già stata raccontata, nemmeno se un romanzo come questo - ancor più vulnerabile perché è la prova suprema, il secondo romanzo - deve confrontarsi con alcuni giganti della letteratura che hanno fatto della guerra il loro topos.
Per questo, la storia de Il corpo umano (Mondadori, pagg. 312, euro 19) non andrebbe neppure raccontata. Perché a dirla così sembra la storia di mille altri soldati in mille altri avamposti di guerra. E a dirla così, la storia di René, Egitto, Cederna, Ietri, Mitrano, Torsu, a dirla senza che ci si cada dentro per mano dell'autore, che questi nomi li conosce appunto come corpi umani, come fossero figli, alla fine si avrebbe la reazione del colonnello Ballesio, che vorrebbe averla, qualcosa da dire, quando i suoi uomini muoiono. Qualcosa da dire per ciascuno di loro, come ce l'ha ogni bravo comandante. Ma siccome non è il loro padre e i loro corpi non se li ricorda nemmeno, qualcosa di vero da dire non ce l'ha: «Sono tutti uguali. Gli dica anche questo. Il colonnello Giacomo Ballesio parla dei suoi uomini, due punti aperte virgolette, per me sono tutti uguali. È morto questo invece di quell'altro, e allora? Non fa alcuna differenza».
Ma questi corpi, invece, sono differenti da tutti gli altri. Perché sono altri corpi umani. Nel mare di croci bianche, rimane la memoria dei corpi a segnare la diversità, nel bene e nel male. E nel bene e nel male i corpi non tradiscono come le parole. Il romanzo di Giordano procede per epifanie minime, in cui ciascuno dei protagonisti trova la propria cifra corporea prima che intellettuale. A questo li costringe, oltre all'attivazione dei sensi animali provocata dal pericolo costante, la promiscuità dell'avamposto. Ma soprattutto la vista del sangue, delle ossa esposte. Il macello dei corpi visti dal di dentro (ma anche la necessità cruenta di un posto al gabinetto, posseduti da «contrazioni ritmiche e involontarie dell'ano. C'è qualcosa di vivo là dentro, con un cuore battente tutto suo») accresce di giorno in giorno la consapevolezza dei soldati verso la supremazia della vita. Le ansie imposte da una quotidianità e famiglie pacifiche, il turbinio sfiancante dei conflitti interiori, paradossalmente la diminuiscono. Mano a mano che la lettura procede, impallidiscono entrambe, la vita ordinaria e quella militare. E tutto lo spazio è occupato da una ricerca di senso. Fino all'epifania massima, il giorno dell'agguato talebano al Lince, in cui René decide verso la vita proprio nel momento in cui la morte vince ogni cosa sotto il sole.
Non è scontato affatto il modo in cui Giordano ci porta al protagonismo dei corpi (detto di passata, il per nulla tenue legame di questo romanzo con il precedente è proprio la capacità magistrale di attraversare la fisicità: nell'incipit de La solitudine dei numeri primi, la gamba spezzata di Alice è Alice). Il corpo umano è così distante dagli esercizi metafisici e sociologici cui ci hanno abituato i narratori italiani contemporanei che alcuni critici lo hanno già trovato compiaciuto verso gli «istinti elementari» (accadde già con Le benevole a Jonathan Littell a cui anche il coraggio di catturare corpi venne dall'esperienza: volontario in una ONG, vide cimiteri di massa e strazio delle mine).
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