Il racconto

In un sabato dello scorso luglio mia moglie e io siamo andati nel borgo ligure di Cavi per affittare una casa per il mese di agosto. Le proprietarie sono due sorelle, Martina e Luisa, tra i quaranta e i cinquanta, ancora belle nonostante l’abbondanza delle misure.
La casa è una delle tante, vecchie abitazioni liguri signorili che s’incontrano praticamente da La Spezia a Nizza e che caratterizzano questo paesaggio rendendolo inconfondibile. Questa qui è dipinta di bianco, le persiane verdi, e si affaccia sul piazzale acciotolato della chiesa parrocchiale, che sovrasta il mare di qualche decina di metri.
La stretta via abbandonata su cui sorgono sia la nostra casa sia la chiesa è la vecchia via Aurelia, il cui tracciato nuovo corre più in basso.
Martina ci accompagna a visitare la casa. Mentre lei spalanca le ante verdi sul panorama marittimo, le domando se questo gruppo di case sia nato intorno alla chiesa, che non sorge al centro del borgo, ma piuttosto defilata, un due-trecento metri in direzione Genova.
No, risponde. La chiesa risale alla metà dell’Ottocento, mentre l’edificio più vecchio - un’altra casa contigua alla nostra - fu costruito addirittura alla fine del Settecento.
«Eh, ma voi non conoscete la storia di questa chiesa» comincia. «Peggio che Capuleti e Montecchi. Un tempo qui esisteva solo la casa rossa, dove abitava una delle famiglie più in vista del paese. Uno della famiglia era diventato parroco dell’unica chiesa esistente a quel tempo, che non è questa ma quella lassù, Santa Giulia, a duecento metri sul livello del mare. Immaginate un po’ tutta la gente del borgo che ogni domenica, e qualcuno anche tutti i giorni, perché noi liguri non sembra ma siamo gente religiosa, saliva fin lassù per questo sentiero, proprio questo che corre dietro la casa. E su, e su, e su: bambini e adulti, giovani e vecchi, con le loro sciatiche e le loro artriti. E gli infermi in barella, sai che divertimento. Una strada che, mi perdoni, lei con la sua bella pancia non riuscirebbe a fare nemmeno una volta. Ma la gente di allora era allenata, altroché».
«Guardi che io questa strada l’ho fatta cento volte».
«Ah. E... tutto bene?».
«Tutto bene».
«Il cuore... le ginocchia...».
«Tutto bene».
«Comunque sia non era una passeggiata da niente. Immagini uno di ottant’anni, che poi qui la gente diventa ben vecchia, il ligure è attaccato alla vita e non la molla tanto facilmente. E a messa ci vuole andare anche lui. Insomma, per farla corta qualche famiglia del paese decide di fare una chiesa nuova, proprio questa qui, vede? Tra queste famiglie c’era anche quella del mio antenato diretto. Decisione presa, permesso del vescovo, il terreno era di proprietà di G. - come anche adesso - che ha fatto anche l’ingresso privato alla chiesa... Solo che bisognava fare i conti col parroco di lassù. Come?, fa il parroco. E io devo perdere un migliaio di fedeli solo perché a quegli sfaticati non gli va più di salire fin qui? Adesso ci penso io. E allora cosa fa?».
«Già. Cosa fa?».
«Si allea con altre famiglie del borgo, quelle che non avevano voluto partecipare alla costruzione della chiesa. Guardi l’insegna sul portone della casa vecchia, quella che c’era prima della chiesa. È l’insegna di Santa Giulia, perché loro avevano giurato fedeltà al loro parroco. E poi non volevano la chiesa perché praticamente, come vede, il campanile gli suona in casa».
In breve: scoppia la guerra civile. Per mesi i fedelissimi di Santa Giulia distruggono nottetempo quello che gli altri costruiscono di giorno. Allora viene chiamata la polizia, due giovanotti in armi che sorvegliano il cantiere durante la notte. Il parroco di Santa Giulia allora corre dal vescovo di Genova e lo prega di fermare quei matti. Ma il vescovo gli risponde che, primo, ormai ha dato la sua parola e, secondo, che non gli sembrano poi così matti: quella stradina è un tormento.
Così gli abitanti del borgo possono festeggiare la loro nuova chiesa. Non tutti, però. I fedelissimi di Santa Giulia resisteranno, rifiutandosi di mettere piede nella chiesa nuova e riempiendo il borgo con le insegne della loro parrocchia. Che in realtà non era più la loro parrocchia, ma tant’è.
«E la guerra quando è finita?» domando a Martina, che si aspettava la domanda.
«Finita? Caro mio, non è mai finita. S’immagini che la mia famiglia fino a quarant’anni fa era proprietaria di tutta la collina qua dietro. Poi mio nonno ha dovuto vendere perché la nonna si era ammalata».
Mi mostra una vecchissima fotografia incorniciata e appesa sopra il letto matrimoniale, in fianco al crocefisso dietro cui fa capolino un rametto d’ulivo risalente a un paio di secoli fa. L’immagine rappresenta due giovani sposi.
«Eccoli qui, i miei nonni. Guardi mia nonna, com’era bella. Ma era delicata, vede? Un bel giorno si ammala, le cure sono costose, e così il nonno deve vendere la collina. E chi compra? Un discendente della fazione nemica, mi capisce? Mio nonno non avrebbe voluto, ma quello era il solo ad avere i soldi pronti, uno sull’altro, e poi non vedeva l’ora di comprare. Aveva i suoi bei motivi, altroché. Venga ad affacciarsi qua dietro. Vede? La rete è praticamente attaccata alla casa. Sapesse quante volte gli abbiamo chiesto di venderci qualche metro di terra per metterci due sdraio e un tavolino, per fare una verandina. Ma lui niente, e questo perché? Perché - me l’ha detto in faccia - lui a quelli della parrocchiale non vende favori. Lui è di Santa Giulia e i favori li fa ai suoi».
Sospira.
«E pensare che quello lì non ci fa niente, sulla collina. Ni-en-te. Che io e mia sorella ci avremmo già fatto un agriturismo di lusso con piscina, campi da tennis e scuderie. Non sanno fare gli affari, quelli. Ma i dispetti sì. Lo vede come va il mondo?».
Questa è una storia vera. Ho tenuto in ombra soltanto qualche particolare trascurabile.

Ma il resto è tutto autentico. È una storia italiana, una delle centomila, strane, inimmaginabili storie di questo incredibile, meraviglioso Paese. Un Paese che possiamo illuderci di conoscere, mentre il suo mistero è senza fine.

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