Dal rigattiere di parole: "Bengala"

Sono fuochi d’artificio. La definizione più bella è del Tommaseo: “Fuochi d’allegrezza, variamente colorati, che accendonsi nella notte”

Dal rigattiere di parole: "Bengala"

Sono fuochi d’artificio. La definizione più bella è del Tommaseo: “Fuochi d’allegrezza, variamente colorati, che accendonsi nella notte”.

Si spinge anche in una specie di ricetta: “Si fa un miscuglio di salnitro, di zolfo, di antimonio e di polvere di carbone combinati in certe date dosi”. Sconsigliato avverturarsi. Per il Rigutini e Fanfani è “fuoco artifiziato in forma di una candela che acceso manda una luce ora candida, ora verde ed ora rossa”.

Il Devoto Oli spiega: “Fuoco d’artificio composto da un cannello di carta resistente, caricato con polveri che danno una viva luce colorata”. E’ anche un razzo colorato usato per segnalazione o per illuminare, di notte, un tratto di terreno, un obbiettivo militare o, in mare, per segnalare la presenza di naufraghi. Il nome è quello del Bengala, regione dell’India (che, come riferisce lo Zingarelli, prende a sua volta il nome dall’antico popolo dei Bang) “dove tali fuochi venivano usati come segnale nella caccia alla tigre”.

L’espressione è giunta e si è diffusa in Europa in epoca coloniale per il tramite dell’inglese “Bengal light”.

La “bengalina” è una stoffa di lana o di seta con trama cordonata in modo particolare, originaria anch’essa del Bengala. Prende il nome dal luogo di origine come altre stoffe pregiate, tra le quali il damasco e il baldacchino.

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