Da qualche tempo a questa parte Paolo Isotta ha deciso di essere felice. Il ragazzo e poi l'uomo che aveva il tedium vitae, bovarista e cioraniano, disgustato dal mondo e mai in pace con se stesso, si è riscoperto un sessantenne pieno di joie de vivre e di progetti. Diceva Nietzsche che «bisogna avere un caos dentro per generare una stella che danza» e per Isotta è stato così.
La virtù dell'elefante (Marsilio, pagg. 590, euro 21,50) è il frutto di questo «nuovo» Isotta, autobiografia fluviale e che si legge d'un fiato, in cui c'è sì dentro «la musica, i libri, gli amici e San Gennaro», come recita il sottotitolo, ma anche molto altro. L'arte e la strada, il sesso e la morte, un'Italia scomparsa e una certa Napoli eterna. Come racconta l'autore, è un libro che molti editori hanno rifiutato: perché «offendeva la cultura» ha detto uno, perché non conteneva «saggi musicali alati, alla Montaigne» ha detto un altro. L'«offesa alla cultura» è un metro editoriale di giudizio curioso. Per dirla tutta, tre quarti dei libri editi in Italia, massime quelli che poi finiscono nelle classifiche dei più venduti, sono, essi sì, un'offesa alla cultura, e insomma non si capisce di che cosa stiamo parlando. Quanto ai saggi musicali alati, alla Montaigne, come scrive lo stesso Isotta «nemmeno a San Gennaro sarebbe dato compiere un miracolo siffatto...».
Ciò non toglie che La virtù dell'elefante musicalmente è ricchissimo, addirittura troppo ricco per chi, come me, in quel campo è un ciuccio fatto e finito. È la musica, una passione dominante e assoluta, il suo motivo di fondo, quello che dà il tono e lega ogni altra cosa, memoria familiare e aneddoti, incontri e scontri, gusti e disgusti. E tuttavia, non è un libro specialistico, per addetti ai lavori, di quelli dal linguaggio tanto gergale quanto astruso. Se sono riuscito a leggerlo io che, ripeto, in materia sono un asino, lo può leggere chiunque, ammesso che in Italia si sappia ancora leggere. Ma questa, come diceva qualcuno, è un'altra storia e quindi un altro articolo.
Isotta è nato all'inizio degli anni Cinquanta. Appartiene cioè a una generazione che fece in tempo a frequentare ginnasio e liceo classico d'impronta gentiliana, in quell'Italia della ricostruzione e poi del primo boom economico in cui le professioni liberali mantenevano senso e dignità. Un Paese non ancora sconciato nei costumi e nei consumi e dove la «rapallizzazione» del paesaggio era appena agli inizi, povero e insieme decoroso, con le classi sociali ben presenti e non l'insopportabile melassa di gusto cafone e piccolo borghese che ne ha preso irrimediabilmente il posto, la pasta al tofu e lo schermo al plasma, la tuta da ginnastica in casa... Certe descrizioni che l'autore fa di quelle famiglie allargate, che vivevano in appartamenti a piramide generazionale, le nonne, le zie vedove e gli zii scapoli, i genitori e i figli che erano anche i nipoti, l'intreccio di cugini, è da manuale.
Diplomatosi al conservatorio, a ventiquattro anni non ancora compiuti Isotta era già il critico musicale di questo giornale, il più giovane critico musicale d'Italia. Qui va fatto un inciso. Anche chi iscrive appartiene agli anni Cinquanta, ha quindi beneficiato più o meno dello stesso tipo di insegnamento, frequentato, in un'altra città, lo stesso tipo di liceo. Bene: nel 1973, Isotta scrive l'appendice musicologica al Mnemosine di Mario Praz, quello che per sottotitolo aveva Parallelo tra la letteratura e le arti visive. Praz è uno di quei geni che capitano una volta nel secolo, non l'erudito noioso o il feticista della specializzazione, ma il dilettante, nel vero senso del termine, dalla cultura sterminata e dalla finezza interpretativa incomparabile, a suo agio nelle più diverse quanto intimamente connesse discipline artistiche. Con assoluta naturalezza, il giovane Paolo si metteva sulla sua scia e il vecchio maestro lo accoglieva come fosse una filiazione naturale. All'epoca io a Praz avrei potuto dire tutt'al più buongiorno.
Secchione? Studi matti e disperati? Vita solitaria da adolescente foruncoloso? La virtù dell'elefante racconta al contrario un'adolescenza guappa e popolana: promiscuità sessuale, cinemini di terza visione con orinatoi a sesso continuo, frequentazioni alte e basse, il professore e lo spazzino, il bidello e l'avvocato, recchioni della Galleria e recchioni dei bassi, un brulicare di umanità variopinta e discinta, drammatica e ridicola. Qui va fatto un altro inciso. Non si può capire Isotta se non si capisce Napoli. Meglio, una certa idea di Napoli che è propria di Isotta, ma non solo sua. Come tutti gli innamorati, egli ne vede solo i pregi e se magari gli si indica un difetto trasforma in pregio anche quello. Gli sfugge, ovvero non gli interessa, quello che è sotto gli occhi di tutti, la decadenza e la sporcizia, la corruzione e l'ignavia, il macchiettismo che ne è divenuta la seconda pelle, se non l'unica e purtroppo vera. Per lui Napoli resta «la città più bella del mondo», con «il mare più bello del mondo» e i napoletani sono i più intelligenti del mondo così come il napoletano è la più bella lingua del mondo. Dal suo punto di vista ha ragione e infatti il libro è pieno di battute fulminanti, ritratti esilaranti, tipi umani straordinari, luoghi e paesaggi incantevoli. Il rischio però è l'assuefazione e/o il rigetto, lo stesso che può provocare il personaggio di Jep Gambardella in La grande bellezza, la sua sprezzatura, le giacche di buon taglio e il cinismo da uomo di mondo. Gli manca il senso del tragico, spunta la mezza calzetta... È, quella di Isotta, una Napoli immaginaria, che vive al di sopra di quella vera, metafisica in un certo senso, immersa nel ventre materno di ciò che era, un passato tanto più mitico perché se n'è perso lo stampo. È anche vero che le illusioni aiutano a vivere e la strage delle illusioni fa il deserto intorno.
La virtù dell'elefante è pieno di giudizi, un po' come il Circolo Italia, di cui Isotta è socio, è pieno di nobili. Talmente tanti, come disse una volta il capo-marinaio a un tale del Nord che pretendeva di attraccare non invitato, invocando la sua qualità di conte, che lì «e Principi se jetteno!», li dovevano buttare... Molti, i giudizi come i nobili, sono irriverenti, alcuni, vale sempre per entrambi, sono eccessivi e/o discutibili, tutti, e questo vale solo per i giudizi, sono sinceri. Isotta è una specie di scugnizzo del pensiero, nel senso che se ne fotte delle conseguenze. Così questo libro è destinato ad aumentare il numero già vasto dei suoi nemici, per i quali è un incrocio fra Erostrato e il boia di Albenga. Fanno tutti parte di quell'Italia politicamente corretta che piange sulla «costituzione più bella del mondo» e pensa che Eugenio Scalfari sia un filosofo. La sola idea che Isotta sia il critico musicale del Corriere della Sera li fa inorridire, è una ferita al loro cuore democratico. Purtroppo per loro, è una ferita incurabile.
Come già detto, essendo nel campo della musica un asino, animale che ha comunque una sua umile nobiltà, non mi azzarderò a parlare di quella dominante il volume. C'è però in esso un aspetto letterario e artistico, a me meno ostico, che di per sé vale il libro. Penso alle pagine su Virgilio e sul Manzoni, su Raffaello e sulle chiese barocche. Memoria, cultura e sensibilità le percorrono, innervandole. Isotta ha uno stile tutto suo, classico con ornamenti, viene da dire, retorico nella retta accezione del termine e insieme crudamente verista. La virtù dell'elefante è un libro molto bello, scritto da chi è finalmente in armonia con se stesso.
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