Nell'Odissea l'epopea del ritorno in patria di Ulisse dura dieci anni. Il racconto 40 giorni. E termina con l'eroe che, lavatosi dal sangue dei Proci, si ricongiunge a Penelope, prima che Atena ristabilisca la pace tra lui e il suo popolo.
L'odissea di Gianni Celati, impegnato per un pezzo di vita in un'epica traduzione dell'Ulysses di Joyce, è iniziata oltre dieci anni fa, quando l'Einaudi volle convincerlo a tentare l'impresa. E termina oggi, 6 marzo 2013, suo personale Bloomsday, giorno di uscita dell'Ulisse di James Joyce «nella traduzione di Gianni Celati», dopo che l'eroe-narratore, lavatosi di dosso scaglie e frantumi di parole, di pensieri e di suoni, ricongiuntosi col mondo, ha ristabilito la pace tra sé e la Letteratura. «Cosa farò ora? Nulla. Ho smesso di correre. Aspetto la morte».
Tradurre l'Ulisse per Gianni Celati è stata una questione di morte e di vita. «Iniziai sei-sette anni fa, dopo che quelli dell'Einaudi mi avevano perseguitato per anni tentando di convincermi». E dopo mille no, mille forse, mille «non ce la farò mai», alla fine, disse sì. «Con il sentimento di chi si butta in un mare tempestoso senza certezza di poter stare a galla», scrive nella prefazione alla sua versione dell'Ulisse, quarto assalto al capolavoro di Joyce dopo la storica traduzione di Giulio De Angelis (Mondadori, 1960), la versione di Bona Flecchia (Shakespeare and Company, 1995) e quella a quattro mani di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi (Newton Compton, 2012).
«Alla fine dissi sì. Rifiutare il progetto dell'Einaudi era impossibile. È la casa editrice dove ho pubblicato le prime cose, dove conobbi Calvino... Era il 2005, credo. Avevo vinto una borsa di studio in Germania, lì potevo stare un po' in pace, e iniziai».
Iniziò dalla fine, dal soliloquio di Molly, un flusso di coscienza di otto interminabili frasi senza punteggiatura che descrivono i pensieri della moglie-Penelope a letto, accanto al marito Leopold Bloom: Sì perché non l'aveva mai fatto di chiedere la colazione a letto.... È l'ultimo episodio dell'Ulisse, il diciottesimo. «Ripensandoci ora, è l'unica parte del libro che potrei rifare. Ma solo se il monologo fosse recitato da una donna reale: sapendo chi è quella donna, guardandola, potrei ritradurre i suoi pensieri, perché Molly è una persona vivente».
Libro vivente, fluido, oceanico, irraggiungibile, l'Ulisse - fin dalla sua apparizione, nel 1922, a Parigi - spaventa tutti: editori, lettori, traduttori. «Perché quella dell'Ulisse non è una lingua. È una stralingua, che prende dentro tutto: echi, citazioni, dialetti, espressioni gergali... l'Ulisse è statisticamente il libro con il lessico più espanso di tutti i testi stampati che conosciamo, Bibbia compresa: nessun libro ha una tale quantità di parole diverse».
E così Gianni Celati, che su Joyce si laureò, a 25 anni, a Bologna, sotto la guida di un maestro come Carlo Izzo, a 65 anni si ritrovò solo, assediato da un esercito di dizionari, lessici ed edizioni annotate, davanti al mostro: «Sì, un mostro. Che mi spaventava, mi dava fastidio... Sulle prime non avevo voglia. Ero incapace di andare avanti. Poi mi diedi delle regole: sveglia alle cinque di mattina, lavoro fino alle cinque di sera, sonno, sveglia, sonno.... Non bastava. Ci riprovai quando mi trasferii a Brighton. Tornai a leggere e rileggere Joyce, a combattere con vocabolari di inglese, gaelico, francese...».
Poi, la scrittura. «Trovare il modo giusto di ri-scrivere fu ancora più difficile. È come provare oggi a parlare come parlava Dante, che usava le lingue di tutte le regioni d'Italia. Non sapevo cosa fare. Era impressionante. Avevo già tradotto Céline, e quando vivevo a Parigi imparai l'argot, la lingua della mala e delle puttane, andavo nei bistrot a chiedere alla gente il significato dei vari termini. Con Joyce è stato peggio. Ho dovuto rifarmi un vocabolario. Ma manca sempre qualcosa. Poi, come un dono arrivato chissà da dove, ho capito che il modo per uscirne era considerare tutto un gioco. È così: non c'è nulla di serio in Joyce. Neanche mezza frase. Tutto un gioco, uno scherzo, come in Rabelais, come la lingua maccheronica, come Teofilo Folengo. Capito questo, l'impresa rimaneva terribile, ma fattibile. Avevo preso il ritmo».
Libro scritto da un uomo che doveva diventare tenore - «Joyce era portatissimo per la musica, quando abitava a Trieste fu chiamato a Zurigo per fare il tenore» - l'Ulisse è tutto ritmo, un testo zeppo di citazioni «canterine» e richiami musicali: dall'opera lirica alla filastrocca, dal canto gregoriano alla cantata mozartiana alle parole onomatopeiche, i versi, i suoni... Pflaap! Pflaap! Cucù... chiuppete e chiappete...
«La chiave di volta è il ritmo. Joyce non scriveva come noi. Aveva un suo modo di parlare, ormai scomparso. Ma se io lo prendevo, ero salvo. O quasi. L'episodio più ostico? L'undicesimo, quello delle Sirene, quando Bloom pranza e pensa, guardando le cameriere, Bronzo con Oro udito il suon di zoccoli, d'acciai rombanti, Impertnènt tnènt tnènt... Pagine impossibili. Il più bello? Quando Gerty MacDowell provoca Leopold che la spia, mostrando la lingerie nuova, e lui si masturba...». «E così, fra momenti di tranquillità e altri di disperazione in cui chiamavo l'Einaudi dicendo che abbandonavo tutto, a un certo punto, dopo revisioni, cambiamenti e riletture, ero pronto per consegnare il lavoro».
E mai come quando si sbarca a Itaca, la propria casa è così lontana. «A Londra, mentre scendevo dal treno per andare a prendere il volo per Torino, due anni fa, mi rubano il computer. Con dentro tutto».
Mesi di disperazione. Mesi di depressione. Mesi di altro lavoro.
«Avevo degli appunti, ero distrutto, mi diede una mano una correttrice di bozze dell'Einaudi...». Sei mesi fa, la consegna definitiva. «Che cosa provo adesso? Niente. Non me ne importa niente, gliel'ho detto. Tanto morirò tra poco tempo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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