“Metaverso” è la parola del momento. Forse in larga parte sulla spinta data dalla mossa di Marc Zuckerberg, che ha voluto fare addirittura all’in ribattezzando in “Meta” l’azienda che ci accompagna ormai nella nostra quotidianità tramite Facebook, Instagram, WhatsApp: ma la mossa del fondatore della società di Menlo Park, che forse, come ha detto Skygolpe, “ha fatto un po’ come se volesse mettere la bandierina sulla Luna senza esserci andato per primo”, rappresenta in realtà solo una sorta di consacrazione definitiva di un concetto che è esploso con fragore nell’ultimo anno e mezzo, ma le cui radici vengono da lontano.
Spiegare il Metaverso non è semplicissimo, anche perché è qualcosa che sta tuttora nascendo, definendosi, evolvendosi giorno dopo giorno. Uno dei concetti che però va assolutamente chiarito è che ad oggi non esiste UN Metaverso, nel senso di un unico “posto”: al contrario, oggi il Metaverso è un insieme di tanti posti a sé stanti, le cui interconnessioni sono possibili - tramite la Rete - ma non ancora codificate. E ieri a Venezia, in occasione della Biennale d’Arte, è stato presentato uno dei progetti più interessanti ed ambiziosi di Metaverso, tutto italiano e di respiro internazionale: MetaVanity, ovvero il Museo nel Metaverso di Vanity Fair.
Un luogo dove conoscere e dove sperimentare, dove la capacità di raccontare storie viene amplificata, che si pone l’obiettivo di rivoluzionare totalmente il modo di intrattenere, informare e comunicare. “Un Metaverso che nasce oggi, ma che ha un futuro innanzitutto aperto”, ci racconta Simone Marchetti, direttore di Vanity Fair: “Un futuro di valore, di eccellenza e anche di mecenatismo, perché da una parte vuole sostenere i nuovi artisti, i giovani talenti; dall’altra, vuole fare capire a tutti gli attori con cui noi lavoriamo, che si tratti di moda, di bellezza, di cinema e di musica, come fare a debuttare in questo mondo meraviglioso, incredibile e di estrema creatività. Il nostro sarà uno spazio aperto, con spazi condivisi, votato allo scambio esperienziale e alle collaborazioni: come è per la nostra rivista, dove quando collaboriamo con scrittori, registi, artisti, non facciamo interviste, ma gli diamo in mano il giornale. Esattamente come ha fatto Cecilia Alemani, in questa Biennale, che ha diretto il giornale come se fosse un padiglione d’arte”.
Costruito ispirandosi al Pantheon di Roma, MetaVanity si presenta come un imponente spazio centrale sormontato dalla caratteristica cupola aperta, da cui si può accedere a 12 stanze dedicate a 19 nomi tra i più autorevoli della scena digitale e crypto internazionale: una grande mostra in cui i visitatori potranno muoversi liberamente tra opere e installazioni, vivendo l’arte e non più solo contemplandola, secondo modalità impensabili in un ambiente culturale tradizionale. L’esperienza, che definire innovativa è perfino riduttivo, è possibile grazie all’app Hadem, totalmente programmata in Unreal 4 (il motore grafico di Fortnite, per intenderci), e sarà presto disponibile anche in versione Oculus per un coinvolgimento ancora più immersivo. Questo è stato possibile grazie a Valuart, partner di Vanity Fair fin dall’inizio del suo percorso nel mondo del digitale, il cui CEO e co-fondatore Etan Genini racconta: “Metavanity è il primo viaggio di Hadem in quello che siamo certi sarà la nostra dimensione come team, come azienda ed ecosistema creativo e intellettuale. Il tempo oggi è davvero maturo per un universo alternativo definitivo e non semplice moda passeggera, a differenza dell’epoca delle varie Second Life: indubbiamente grazie alla spinta fornita da due anni forzati di socialità fisica spesso limitata, ma soprattutto per via del livello ormai raggiunto dalle nuove tecnologie. Vanity Fair ha saputo abbracciare in pieno i valori costitutivi della rivoluzione culturale figlia di questo momento, ospitando alcune delle più straordinarie menti creative di oggi, lasciandole libere di operare nel pieno rispetto della loro storia e diventare la vita di un contenitore che tutto vuole fuorché “contenere”, bensì liberare nell’etere esperienze e dare modo al visitatore di immergersi, vivere e scoprire ciò di cui moltissimi parlano, solo alcuni davvero studiano e purtroppo pochissimi stanno cercando di sostenere”.
Potrebbe forse sembrare paradossale, in effetti, che una realtà popolare e “glamour” come Vanity Fair possa rappresentare il contesto adatto a quella che tuttora, seppur sempre meno sottocultura, è comunque una nicchia con valori particolarmente radicali come quella della comunità crypto. Eppure SkyGolpe, uno dei cryptoartisti più importanti a livello internazionale (presente in MetaVanity) sostiene che “in realtà si deve fare loro un applauso, perché nonostante si tratti di una realtà estremamente popolare ha saputo intraprendere un progetto di vera avanguardia, con un approccio fortemente culturale ed artistico che ci ha fatti sentire non solo rappresentati, ma anche supportati da un livello tecnologico veramente progredito, grazie all’apporto di Valuart. Tant’è che questo museo è caratterizzato, a mio parere, da uno degli stadi più avanzati della tecnologia che sta dietro al Metaverso. Gli artisti crypto solitamente sono effettivamente molto restii a confrontarsi con certe dinamiche, ma questo è un caso del tutto diverso: qui non esiste uno sfruttamento commerciale, ma una proposizione culturale, di innovazione sociale e tecnologica, del rapporto tra l’arte e la sua fruizione.
Questo discorso non vuole criticare però il rapporto tra l’arte e il suo mercato: l’aspetto commerciale dell’arte è importante, il mecenatismo è da sempre fondamentale ma quello che deve essere sempre centrale la coerenza, l’intenzione alla base del concetto”.
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