La Verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso

Ad Ascona (Svizzera) quaranta opere, tra dipinti, quadri specchianti, installazioni, video, oltre al Terzo Paradiso esposto nel Parco del Castello di San Materno

La Verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso

Ad Ascona (Svizzera), dal 30 maggio al 26 settembre 2021 il Museo Comunale d’Arte Moderna, in collaborazione con Cittadellarte – Fondazione Pistoletto di Biella, ospita la più importante e completa personale dell’artista mai tenuta in Svizzera: “La Verità di Michelangelo Pistoletto. Dallo Specchio al Terzo Paradiso”. Quaranta opere, tra dipinti, quadri specchianti, installazioni, video, oltre al Terzo Paradiso esposto nel Parco del Castello di San Materno compongono la rassegna. E un particolare Terzo Paradiso, creato con sassi levigati dal tempo e collocato su Monte Verità, e donato dall’artista alla cominutà locale, chiude simbolicamente - tramite i suoi tre cerchi - un più ampio cerchio: quello della continuità tra il pensiero di Pistoletto e questo luogo di Ascona, emblematico e simbolico. Una continuità che collega i pensieri degli artisti anarchici e teosofi dell’inizio del Novecento, che qui crearono una comunità storica, a quelli del Maestro biellese; che ancor oggi, a 87 anni, porta avanti in tutto il mondo - tramite la sua fondazione - concetti di radicale cambiamento quali quello della demopraxia, dell’attivismo dal basso. Temi talmente primari ed urgenti da essere sempre estremamente attuali, che pongono il focus sulla sostenibilità e sull’inclusività. Abbiamo incontrato Pistoletto per fargli qualche domanda su questi temi.

Lei è stato protagonista ai suoi esordi di un’attività creativa legata a un periodo di grande cambiamento. Era il boom economico, e lei iniziò a lavorare in pubblicità. Oggi ci troviamo ancora una volta in un periodo di grandi stravolgimenti, in cui la creatività può e deve essere protagonista. Qual è secondo lei il compito dell’artista oggi?

Credo sia quello di portare avanti la massima capacità di prodursi nello sforzo della creazione, nell’avventura personale, nell’immaginazione. E riuscire a sviluppare il fenomeno immaginativo è fondamentale non soltanto per farne un uso proprio, ma per portare questa capacità di immaginare nel mondo e far sì che anche le altre persone possano a loro volta immaginare. Introducendo, in questo processo di immaginazione, la vita stessa. L’arte è uno specchio della realtà che può essere utile per tutti. Ognuno si può riflettere nella vita attuale immaginandone gli sviluppi, pensando a come dovrebbe diventare, assumendo una dinamica rigenerativa. Quindi la creatività non è più creare da soli e per sé, ma creare insieme agli altri: l’artista può aiutare il prossimo a creare, in un nuovo mondo dove tutti sono artisti implicati nella trasformazione di ogni cosa. Ieri l’artista poteva anche sperimentare isolatamente, oggi la sperimentazione deve essere fatta insieme a tutti gli altri e deve essere una sperimentazione condivisa perché l’opera d’arte ormai è un atto globale.

L’odierna emergenza sanitaria è in realtà figlia in gran parte delle emergenze preesistenti, tra cui quelle dell’inclusività, dei conflitti sociali e delle questioni geopolitiche. Pensando al suo periodo nell’ambito del movimento dell’arte povera mi viene in mente un’opera come Vietnam, ma anche - in generale, l’utilizzo dei materiali di scarto dell’antropocene. Quanto quella poetica può essere preziosa rileggendola con gli occhi di oggi?
Rivedere le cose fatte negli anni Sessanta e Settanta è importante perché erano i tempi in cui il sistema consumistico iniziava a virare verso conseguenze estreme, e riportare un equilibrio tra la natura e l’artificio diventava indispensabile. Io all’epoca feci uso degli stracci per la Venere proprio per descrivere la realtà del disuso, o dell’uso portato al rifiuto. La massa di rifiuti stava inquinando il mare, la terra: fu proprio in quegli anni che cominciammo a sentire da una parte il peso dello sfruttamento della terra con gli idrocarburi, e dall’altra l’inquinamento diretto creato dagli esseri umani per un eccesso di produzione. L’artista non poteva stare chiuso nel proprio studio, sentiva l’urgenza di uscirne per incrociare i vari aspetti della società e per far passare questo messaggio di libertà ma anche di responsabilità dall’arte, come dicevo una responsabilità condivisa. Questo era il principio che è proseguito e prosegue tuttora. Era il periodo dell’arte povera, che voleva dire arrivare all’essenza, alla radice. Povero non vuol dire squattrinato ma significa essenziale, la detrazione di tutte le inutilità e gli sprechi. Allora si parlava di decrescita e questo termine faceva impressione, perché si pensava che fosse più giusto pensare a una crescita. La decrescita però non era qualcosa da auspicarsi, ma che stava diventando indispensabile: occorreva una decrescita del consumismo sfrenato per arrivare a un equilibrio di rapporti di produzione sano e sostenibile. Penso a quando presentò il Terzo Paradiso alla Biennale del 2005. Un evento volto a rivolgere il pubblico nel rispetto verso la natura e gli spazi urbani, una importante riflessione sulla sostenibilità ambientale... Il Terzo Paradiso vuol proprio dire questo: il primo e il secondo, ovvero quello naturale e quello artificiale, si combinano per creare il terzo paradiso, che è il terzo stadio dell’umanità: quello della rigenerazione, dell’armonia e dell’equilibrio. E questo si intende declinato in tutti i sensi: nel senso politico, economico, pratico e culturale.

Sono passati 16 anni da allora, sono appena stata alla Biennale di Architettura e i temi sono gli stessi. Secondo lei riusciremo mai - e se sì, come - a fare una Biennale che non parli più di queste cose perché non ce ne sarà più bisogno?
Purtroppo non credo che non ce ne sarà più bisogno, ma magari ce ne sarà meno bisogno. Perché l’equilibrio auspicato non è un equilibrio che si trova definitivamente una volta per tutte, ma è un equilibrio che va ricercato continuamente. Quello che io chiamo “equilibrio dell’arte” è un equilibrio dinamico perché un sistema statico non funziona, diventa immobile: non può esserci una legge fissa in un universo in divenire, ecco perché occorre restare costantemente attivi, creare un equilibrio mobile. Perciò è inevitabile che ci sia una continua rilettura e riproposta delle problematiche. Sarebbe bello che si arrivasse a quello che noi abbiamo - anche come Cittadellarte - messo in atto con il progetto della politica demopratica: ma siamo ben lontani dall’arrivarci. Perché le politiche sono tutte orientate a un’ideologia speculativa e agli interessi più biechi. Noi ce la mettiamo tutta, avviamo dei progetti che ci sembrano giusti nel senso di un cambiamento davvero rigenerativo e reale e poi cerchiamo di portarlo avanti passo passo, ma chiaramente nulla è ancora risolto perché altrimenti non saremmo qui a preoccuparci, e la preoccupazione continua a essere molto alta. Mi hanno chiesto, dato che vorrei rigenerare le cose tramite l’arte, se sono felice. E io ho detto che sono felice perché è vero, non so se ci riusciremo, ma già mentre lo faccio mi sento meglio. Il “fare” costantemente è fondamentale perché l’obiettivo e quello di cambiare le cose man mano.

Sempre pensando a lei e agli anni Sessanta mi viene in mente la serialità, o meglio la non unicità di un’opera, che comincia a caratterizzare l’arte, nella Pop-art come nell’arte povera stessa. Oggi l’ultimissima frontiera dell’arte è invece quella di conferire unicità alla cosa più replicabile che esista, ovvero un file immateriale. Gli NFT vengono venduti a milioni di dollari. Qual è il suo punto di vista?
Personalmente non ho ancora fatto uso di questo sistema né ho approfondito a dovere, quindi non ho ancora un punto di vista definito. Certo è che se questo sistema dovesse poi di fatto portare solo a una perdita dei valori artistici e trasformarsi essenzialmente in una grossa bolla speculativa sarebbe una cosa poco piacevole. Non vorrei diventasse qualcosa che, consentendo a chiunque di portare alla massima diffusione opere poco pensate e poco lavorate, distraesse da quella che invece è la necessità, ovvero la pratica.

Restando sempre alle nuove tecnologie, quello che oggi qualifica un’immagine - che chiunque al mondo può scattare in qualunque momento con il suo smartphone - come un’immagine degna di attenzione, è semplicemente quanto riscontro abbia in rete. Conta più il feedback di chi clicca like che non l’opinione degli addetti ai lavori. E un bene o è un male, e giusto o e sbagliato?
È giusto. Poi, vede, i miei quadri specchianti sono già un selfie, nel quadro specchiante c’è l’universo, ci sono tutte le possibilità estese anche al non tangibile. Quello che però bisogna ancora verificare, a proposito di questa acquisita possibilità di interagire e di influenzare da parte di tutti, è se resta sul piano virtuale o se pian piano diventa un reale “saper fare” di tutti sul piano reale, economico, politico, della responsabilità comune, della condivisione, nella pratica della vita quotidiana. Bisogna capire, insomma, che se tutti possono avere un like su una piccola opera quotidiana che viene trasmessa al mondo questo significa che il mondo adesso è talmente connesso da potere passare anche a delle azioni più pratiche e più utili e non soltanto estetiche. Se il like avvenisse nelle proposte reali e nell’assunzione di responsabilità tra i cittadini del mondo allora questo sarebbe sì il vero passaggio. Ma non sto parlando di una “votazione collettiva” con il like: quella non funziona, ci hanno già provato i 5 Stelle. Non funziona perché pur esprimendo il proprio voto, questo è comunque incanalato in dinamiche superiori e partitiche: quindi l’efficacia della partecipazione da parte delle persone non c’è, perché per quanto il popolo sia numerosissimo non può avere potere perché ognuno agisce individualmente; e da soli non si può avere potere. Soltanto quando si creano delle realtà pratiche di organizzazione della vita quotidiana, come per esempio nei contesti delle industrie, della produzione del cibo, delle piccole aziende, di tutto quello che ha una responsabilità diretta e pratica sul produrre, sul fare e anche sul comunicare, allora si arriva ad avere una forza che permette una efficace discussione comune nel contesto di tanti piccoli governi e piccoli poteri governativi. Tutte organizzazioni fatte di diverse persone consapevoli e attive. Ci dovrebbero essere degli incontri pratici, non partitici ma pratici. Ogni azienda è già un’organizzazione, una stessa famiglia è già un nucleo reale che deve quotidianamente fare un piccolo governo. Dobbiamo unire questi governi quotidiani di media e piccola dimensione e questo diventerebbe il vero parlamento.

Le faccio un’ultima domanda, un po’ banale ma la faccio sempre ai giovani e bravissimi artisti: quali sono i suoi progetti per il futuro?
I miei progetti futuri

sono quelli del passato. Quelli, insomma, che mi hanno portato fin qui, e che come lei stessa ha osservato contemplano obiettivi che sono ancora ben lungi dall’essere raggiunti. Per cui c’è sempre, e ancora, tutto da fare.

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