Bella come una principessa uscita dal libro delle Mille e una notte, con il velo bianco elegantemente poggiato sui capelli neri che le incorniciava sempre il volto, ma senza nasconderlo. Era bella e coraggiosa Benazir Bhutto, la prima donna che riuscì nell’impresa di scalare i vertici delle istituzioni politiche del suo Paese, il Pakistan musulmano, diventando premier per ben due volte. Il suo, ricorda il giornalista americano Christopher Hitchens, era un coraggio "fisico". Lo stesso che la portava tra i diseredati dei quartieri più malfamati di Karachi, per i quali chiedeva diritti e giustizia, e che l’ha fatta resistere, lei, brillante studentessa di scienze politiche, formata ad Harvard e Oxford, tra vermi, ragni, scarafaggi e il caldo infernale della cella di isolamento di un carcere della provincia del Sindh.
Benazir, figlia del primo ministro e "figlia del destino", come il titolo della sua autobiografia, quando suo padre, il premier Zulfiqar Ali Bhutto fu condannato a morte dal regime del generale Mohammed Zia ul Haq, anziché restare al sicuro nei salotti dell’alta borghesia britannica, scelse di tornare in patria. Il 3 aprile del 1979, il giorno prima che venisse appeso alla forca, lo salutò per l’ultima volta in un colloquio a distanza di appena mezz’ora. Poi fu spedita in gattabuia anche lei per cinque anni, ma promise a sé stessa e al suo popolo che quella morte sarebbe stata vendicata. Nel 1984, una volta riacquistata la libertà, tornò nel Regno Unito. Ma non per fuggire. Raccoglie il testimone del padre e diventa leader in esilio del Partito Popolare Pakistano. Con l’abolizione della legge marziale, torna nel Paese e dopo le elezioni del 16 novembre 1988 in cui il PPP trionfò contro la coalizione islamista viene nominata primo ministro a soli 35 anni.
L’essersi sposata un anno prima con il facoltoso campione di polo Asif Alì Zardari per salvare la "decenza" non le risparmiò le critiche dei musulmani più radicali che cercarono di far revocare la sua nomina. Il consiglio degli ulema del Pakistan sosteneva che Benazir non fosse adatta a guidare il Paese perché, secondo alcuni hadith, "un popolo che affida i suoi affari a una donna non può prosperare". Le donne musulmane, inoltre, spiegavano i dotti, non possono radunarsi assieme agli uomini e questo avrebbe reso difficoltoso per la figlia dell’ex premier portare avanti il suo lavoro politico. La questione fu sottoposta al Consiglio Supremo della sharia, ma alla fine Bhutto riuscì a rimanere in carica. Fu sostenitrice di un’economia fondata sull’iniziativa privata e dei legami con il mondo occidentale in politica estera, assieme all’emancipazione delle donne e dei poveri. Ma il suo governo dura soltanto due anni.
Nel 1990 viene destituita per corruzione. Un’accusa che la accompagnerà anche negli anni successivi, quando diverrà premier per la seconda volta, nel 1993. Le viene imputato di aver nascosto milioni di franchi in Svizzera, di essere stata troppo indulgente con i talebani per estendere il controllo del suo Paese sull’Afghanistan, di essersi appropriata dei gioielli del tesoro di Stato e di aver addirittura cercato di vendere al British Museum un frammento lunare raccolto durante la missione Apollo 11, dono del governo statunitense a quello del Pakistan. Per questo è costretta a dimettersi di nuovo nel 1996. Lei si è sempre professata innocente. Ma le ombre si sono addensate anche sul marito, soprannominato "mister 10 per cento" per aver ricevuto centinaia di tangenti, accusato di trafficare oppio con l’aiuto dei mujaheddin, e di complicità nell’omicidio di suo cognato Murtaza Bhutto, ucciso dalla polizia di Karachi in circostanze misteriose. Anche l’altro fratello di Benazir, Shahanawaz, era morto avvelenato a Cannes.
Per l’ex premier inizia così un esilio dorato, tra Dubai e Londra, passato a difendersi dalle accuse e a preparare il suo ritorno in campo, sostenuto anche da Washington per bilanciare il potere del generale Pervez Musharraf. Per molti, nel suo Paese rappresentava ancora una terza via liberaldemocratica tra la dittatura militare e i partiti islamisti. Per lei, le sorti del Pakistan sono sempre state legate a doppio filo alla vendetta contro quel generale Zia, scomparso in uno strano incidente aereo nel 1988, che decise l’impiccagione di suo padre. Quando il 18 ottobre del 2007 scese dall’aereo che la riportava a Karachi dopo otto anni di assenza, ad accoglierla fu un kamikaze imbottito di tritolo che fece strage nel corteo di sostenitori radunatisi per accoglierla. L’obiettivo era chiaramente lei, Benazir. Ma l’ex premier pachistana restò illesa, protetta dall’auto blindata. Furono almeno 140 persone a perdere la vita.
Nei giorni successivi alla strage, l'ex premier puntò il dito contro gli estremisti islamici, alcuni ufficiali dei servizi segreti pakistani e i seguaci di Zia. "Non dobbiamo permettere – scrisse - che la sacralità del processo politico sia sconfitta dai terroristi". "In Pakistan occorre ripristinare la democrazia e l'equilibrio delle posizioni moderate, e il modo per farlo è tramite elezioni libere e oneste che instaurino un governo legittimo su mandato popolare, con leader scelti dal popolo", scandiva l’ex premier. Aveva cambiato idea sui talebani ed Al Qaeda, e vedeva ormai come un pericolo l’ascesa del fondamentalismo nella politica pakistana. Dopo l’attentato del 18 ottobre assieme ai suoi collaboratori aveva studiato sistemi per raggiungere i suoi simpatizzanti in sicurezza con "comizi virtuali". Ma la verità è che Benazir, "figlia del destino", non aveva intenzione di rinunciare a stare tra la gente che la seguiva e la amava.
Malgrado sapesse chiaramente di essere un obiettivo, il 27 dicembre circondata dalla folla a Rawalpindi si alzò lo stesso in piedi sulla jeep bianca che la trasportava avanzando fra le bandiere verdi rosse e nere per salutare i suoi sostenitori. Un ultimo atto di coraggio, prima di accasciarsi sotto il fuoco dei proiettili. Il velo bianco sistemato sopra la camicia azzurra si scompone. Benazir si lascia cadere e poco dopo le telecamere dei reporter riprendono una palla di fuoco che inghiotte tutto. Assieme a lei muoiono nell’esplosione almeno altre venti persone. A sparare i colpi mortali, forse, un estremista islamico legato ad Al Qaeda. Ma la fine della prima donna leader di un Paese musulmano è ancora avvolta nel mistero. A volerla morta non erano soltanto i fondamentalisti, che la consideravano una pedina degli Stati Uniti, ma anche parte dell’establishment militare e dell’intelligence di Islamabad.
Nonostante la sua sia stata un’esistenza contrassegnata da luci e ombre, il carisma, il coraggio e la determinazione di Benazir Bhutto continuano ad ispirare milioni di donne pachistane. Donne che credono nella libertà. La libertà di vestirsi all’occidentale o di poter dire la loro a scuola, sul posto di lavoro o all’interno delle istituzioni. Diritti che nel Pakistan di oggi sono ancora negati. La rivoluzione di Benazir è rimasta a metà, soffocata dall’oscurantismo dei fondamentalisti. Lo dimostrano vicende come quella di Asia Bibi o delle tante donne cristiane pakistane costrette con la forza a sposarsi con uomini molto più grandi di loro o a convertirsi all’Islam.
Una persecuzione che travalica frontiere e fusi orari, capace di mettere a tacere ovunque chi si ribella, come Hina Salem, Sana Cheema, Saman Abbas. Ragazze che sognavano di essere libere, con lo stesso coraggio di Benazir.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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