Da dove vengono le idee, gli spunti, le suggestioni per un racconto, per un romanzo? Questo problema affascina Michele Mari che ne ha ampiamente parlato al Festival delle Letterature di Roma l’anno scorso. Vengono forse dall’Iperuranio platonico? No, non da una fonte così eterea e impalpabile. Mari pensa che vengano da qualcosa di più concreto, sicché dopo aver letto la trentina di storie comprese nel suo ultimo libro (Fantasmagonia, Einaudi, p.160, euro 18) siamo più che legittimati a pensare che valga lo stesso per il loro autore: Mari deve possedere una casa in campagna (magari quella descritta nel precedente Verderame del 2007, o come quella della bellissima illustrazione di copertina intitolata La casa di Edward Gorey che, per chi non lo sapesse, era uno scrittore e illustratore americano famoso per il suo stile macabro…) e lì vada a trarre le proprie ispirazioni: perché le sue trame sono così bislacche, articolate, sorprendenti che, di certo, ha uno spiritello bizzarro che gliele suggerisce. E magari nottetempo o sul far dell’alba il nostro filologo si reca in un abbaino o in una cantina dove lo tiene rinchiuso con qualche incantesimo e lì vada ad approvvigionarsi di tutte quelle improbabili (ma coerenti!) trame che va elegantemente sciorinando. Non può essere altrimenti. Del resto, fra le righe, lo ammette lui stesso: nel conclusivo racconto del libro, appunto Fastamagonia, una specie di bignamino del perfetto fantasma e della perfetta casa infestata non scrive forse che solo «chi versa in uno stato prefantasmatico» può accorgersi di certe cose? E non le descrive esplicitamente in Lontano, lontano definita per di più «una storia vera»?
In effetti Michele Mari, sin dai suoi esordi ventitre anni fa con Di bestia in bestia (1989) è un po’ un unicum nel panorama della narrativa italiana. È l’unico infatti che possiede un retroterra culturale che gli permette di combinare il classico con i capolavori della narrativa gotica, nera, orrorifica e fantasmatica, e di coniugare una sapienza di scrittura allo stesso tempo originale e mimetica, dato che riesce a mettere insieme gli stilemi di volta in volta arcaici, medievaleggianti, settecenteschi o ottocenteschi, con un uso del linguaggio che ricorda Gadda e Manganelli: il risultato è personalissimo, per nulla pedante e sempre assai godibile. In più Mari è per fortuna un tipo appartato, non si mescola al culturame firmaiolo, è lontano da convegni chiassosi e volgari, non è un tuttologo che imperversa sui giornali e in televisione, aborrisce i luoghi comuni e la tabe del politicamente corretto. Segue la sua via, la sua ispirazione, i suoi studi. Ha la vocazione di “affabulare” (come fa dire ad uno dei suoi personaggi), è uno cui piace “raccontare storie” (come dice di sé Ray Bradbury di cui Mari è un estimatore). E le sue storie, logiche nella loro improbabilità, affascinano sul serio.
Chi si è stufato dell’ultima ragazzina “grande scrittrice”, delle vicende di operai in cassa integrazione e di imprenditori falliti, delle satire politiche contingenti, delle saghe familiari, delle problematiche psicologiche post-industriali... insomma delle cose che vanno oggi per la maggiore nella narrativa italiana e sono premiate per la loro fuffa, allora deve leggere Fantasmagonia (che potrebbe anche essere Fantasmagoria) dove imperversa la letteratura che è vita e la vita che è letteratura, ovvero la letteratura umanizzata. La maggior parte dei protagonisti sono infatti figure della letteratura mondiale e i loro personaggi, esseri umani ed esseri cartacei che sono al centro dei racconti di Mari, evidentemente quelli che più lo hanno affascinato soprattutto nella giovinezza e che ha approfondito quando è diventato docente di letteratura italiana all’Università di Milano.
Il «mostro» abbinato con l’infanzia è un dei temi favoriti da Mari, ma non bisogna ricorrere a Freud per dare una spiegazione: basta ricorrere alle sue letture. E la “mostrificazione” dei grandi personaggi letterari è uno dei maggiori divertimenti e per noi e per lui: infatti lo diventano senza irriverenza o dileggio, ma semplicemente accentuando alcune loro caratteristiche, e ciò era già presente nel delizioso Io venia pien d’angoscia a rimirarti (1990) dove Giacomo Leopardi è adombrato nelle vesti di un vampiro: lo stesso capita in Fantasmagonia per Byron e Shelley (Villa Diodati), per Machiavelli (Il centauro) o anche per Salgari (Mamapraciam), dove si affronta il tema dell’ispirazione di cui si diceva all’inizio, insieme ai Grimm in un racconto dal doppio colpo di scena, senz’altro tra i migliori del libro (Il patrimonio del popolo tedesco), ed a Shakespeare (La famiglia della mamma). Non mancano altri, coinvolti nelle avventure più singolari e paradossali: da Kafka/Collodi (Josef K.
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