Roma - Nessun errore, nessun imbarazzo, nessuno scandalo. Massimo D’Alema, inossidabile, respinge ogni accusa di colpevole coinvolgimento nelle scalate bancarie. Nello studio di Ballarò vuole fare piazza pulita di sospetti e schizzi di fango e liquida come storie vecchie di 2 anni, fatti «arcinoti», «archeologia giudiziaria», quel che è uscito anche su di lui dalle intercettazioni su Unipol-Bnl.
Insomma, non ci sta a farsi crocifiggere a quella «battuta, chiaramente una presa in giro», a quel «facci sognare!» detto all’ex presidente di Unipol Francesco Consorte. Tesissimo ma gelidamente controllato, il vicepremier e ministro degli Esteri quasi ignora le domande del conduttore Giovanni Floris e le obiezioni degli altri ospiti: il leader Udc Pier Ferdinando Casini, il Pg di Torino Giancarlo Caselli, i direttori del Corriere della sera Paolo Mieli (in collegamento) e del Giornale, Maurizio Belpietro. Dice che quella telefonata «resa pubblica in modo inopportuno non ha rilevanza penale né etica». Anzi, dietro c’è un costume diffuso in tutto il mondo, addirittura «un dovere» per chi abita il Palazzo. «È del tutto normale - sostiene D’Alema - che la classe politica si occupi di fusioni bancarie, se non vengono commessi reati». Nel caso specifico, come si sa, «guardavamo con favore al progetto di creazione di una grande banca vicina al movimento cooperativo perché avrebbe potuto essere utile all’economia italiana». Il leader Ds lo ribadisce: «Per l’Italia sarebbe stato meglio che farla acquistare dai francesi».
Tanta confusione per nulla ma, come dice Prodi, «c’è un’aria irrespirabile, un clima preoccupante che rischia di far pagare al Paese un prezzo alto». Per D’Alema, si danno in pasto all’opinione pubblica «ipotesi prefabbricate senza solido fondamento» e bisogna «ristabilire condizioni di vita civile in questo Paese». Come? Il vicepremier è favorevole ad un ddl (non un decreto) sulle intercettazioni, ma assicura: «Non vogliamo imbavagliare nessuno». Il testo l’ha già votato anche Di Pietro che oggi protesta, ricorda, e Casini.
Ma il leader centrista è contrario e accusa la sinistra di «garantismo a intermittenza». Nelle intercettazioni è stato tirato in ballo anche lui e precisa di non aver mai incontrato Ricucci, né di aver parlato di Rcs con il «suocero» Francesco Gaetano Caltagirone: «Io faccio gli affari miei e lui i suoi».
D’Alema attacca le toghe, per la sistematica divulgazione dei verbali, replicando duramente a Caselli che difende i colleghi. Queste fughe di notizie, dice, danneggiano «l’immagine della magistratura, non della politica». Lui che ha evocato per primo Tangentopoli, ora distingue: «Nel ’92 la classe dirigente era sotto accusa per gravi reati; oggi non è così e non è una differenza di poco conto». Lo stesso Consorte, presentato come «Al Capone», finora non ha avuto «neppure un rinvio a giudizio», anche se qualche amarezza per aver scoperto che curava «i suoi interessi», non si può negare. E dalle intercettazioni sulla scalata di Stefano Ricucci a Rcs emerge che «dietro di lui c’era solo Ricucci, che cercava agganci qua e là». Non D’Alema, «come è stato scritto». Il leader Ds dice di essere garantista sempre e per tutti: per il capo di Fi e per quello della Quercia. «Non rimprovero a Berlusconi di avere ricevuto un banchiere e non posso rimproverare il segretario del mio partito di essere andato a trovare il governatore della Banca d’Italia».
È su questo che scoppia la bagarre con Belpietro, che critica la sua «lettura minimalista» della vicenda. D’Alema replica con foga: «Se riguarda Berlusconi la pubblicazione di intercettazioni è un attacco delle toghe rosse, se invece riguarda gli altri...».
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