D’Alema vede le urne e riscopre le liste civiche

La diplomazia del ministro degli Esteri tenta di convincere i moderati a non tornare al centro, mentre Veltroni si copre a sinistra e apre allo Sdi. Al Senato Pd e cespugli ex Pci sarebbero intenzionati a puntare su candidati di bandiera come Rodotà

D’Alema vede le urne e riscopre le liste civiche

Roma - Ufficialmente gli uomini dell’Unione dicono che serve «una maggioranza ampia», o «un fatto politico nuovo». E che se questo non accade, il governo di Franco Marini non nascerà. Il ministro Vannino Chiti, uomo-chiave del governo di Romano Prodi (oggi veltroniano doc) convinto spiega: «Non ci sono né ambiguità né subordinate. Primo: il fatto nuovo può essere l’ingresso nella maggioranza di governo di una nuova forza politica di peso, come la Lega o come l’Udc. Secondo: se questo non accade, non si proverà nemmeno a votare un... governicchio. Terzo, se ciò non riesce e fossimo costretti ad andare al voto, noi - il Pd - correremmo di certo da soli, o accompagnati da forze che condividono i punti chiave del nostro programma sia alla Camera che al Senato. Chiaro?».

Chiaro, chiarissimo. Ma mica tanto, in realtà. Perché poco prima che Chiti - di cui è nota l’onestà intellettuale - ripetesse queste cose di fronte ad alcuni giornalisti appena uscito da uno studio dello speciale crisi di Unomattina, in uno studio di La7, ad Omnibus, il senatore Nicola Latorre - dalemiano al titanio, uno altrettanto lineare nelle sue posizioni - dribblava in ogni modo la risposta su con quali alleanze il Pd debbba andare al voto. E su Marini poi rispondeva: «Deve trovare in Parlamento i numeri...» . In queste due sincerità divergenti c’è il dilemma di un partito in cui D’Alema e Veltroni tornano nuovamente ad essere divisi, con due strategie addirittura opposte su come gestire sia la crisi che il voto. Il leader del Pd è convinto che la carta politica «Pd contro tutti» (malgrado la certezza della sconfitta) sia l’unica possibilità di resurrezione (anche se fra cinque anni!). D’Alema pensa che se il governo Marini nasce - con un governicchio o in qualsiasi altro modo - poi su una riforma elettorale di «modello tedesco» si può trovare un accordo. Veltroni si prepara alla battaglia elettorale con il «porcellum»; D’Alema spera ancora nella possibilità che il nuovo governo possa indire il referendum prima del voto.

Veltroni pensa che correre da soli svuotando gli ex alleati (della sinistra radicale) possa portare ad un incredibile aumento di consensi; D’Alema invece ha in mente, anche in caso di elezioni un modo per far quadrare il cerchio. Come? Qui viene il bello. Perché la soluzione che dirigenti di Rifondazione come Franco Giordano e i diessini hanno ipotizzato, è un piccolo capolavoro di furbizia e spregiudicatezza elettorale. Siccome la legge elettorale del Senato prevede l’apparentamento di tutti i candidati ad un candidato premier unico, per mettere in piedi una forma di desistenza c’è solo un modo: alla Camera correre ognuno per conto suo con il proprio leader (Bertinotti contro Veltroni e contro Berlusconi). Al Senato, invece, nelle regioni in cui il Pd non può ottenere la maggioranza da solo, collegare sia i candidati del partito di Veltroni, sia quelli della sinistra radicale, ad un candidato «di bandiera» in cui entrambe le sinistre possano riconoscersi. Chi? Un uomo con «esperienza istituzionale», un personaggio non schierato con uno dei due partiti: uno, che ha l’identikit del professor Stefano Rodotà.

Questa strategia, poi, si lega ad un altro nodo importante: la nascita della cosiddetta «Cosa Bianca» che dovrebbe mettere insieme diverse storie centriste e post democristiane, ripercorrendo in parte il progetto della vecchia Udr di Francesco Cossiga (che permise la nascita del primo governo D’Alema). Certo, Marini rischia molto (e potrebbe persino condurre l’esplorazione per poi passare la palla ad Amato, se non si aprono crepe nel centrodestra). Ma almeno aritmeticamente, con i voti di Dini (forse recuperabile) di Andreotti (che ha speso buone parole per il presidente del Senato) di Baccini, del «senador» Pallaro e dello stesso Marini (che rinunciando a Palazzo Madama potrebbe «votarsi») il governicchio, diventa possibile. Certo, Veltroni di «desistenze occulte» o di «liste Rodotà» non vuol nemmeno sentir parlare. Ma mariniani e dalemiani hanno una argomentazione molto forte presso il partito: che senso ha combattere una campagna elettorale che se fatta da soli si può solo perdere?

Ieri, però, sono accaduti due fatti importanti. Primo: la riunione del gruppo di Sinistra democratica ha visto prevalere quasi all’unanimità la tesi di correre con la «Cosa rossa» e resistere al «richiamo della foresta» veltroniano. Secondo: Antonio Di Pietro, consultandosi con i dirigenti più stretti ha scelto di non arruolarsi (per ora) nella Cosa bianca.

La prima presa di posizione indebolisce il sindaco di Roma, che ha bisogno di Mussi e compagni per «coprirsi» a sinistra (e ieri infatti il veltroniano Giorgio Tonini faceva ponti d’oro a Sdi e a Sd invitandoli a «scrivere il programma insieme»). La seconda rende più difficile la nascita della Cosa bianca che tanto aiuto darebbe alla strategia dalemiana. Il governicchio aiuta a sopravvivere, la «desistenza» a non rendere matematica la sconfitta. Forse.

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