D’Elia: non resterò ostaggio di un passato criminale

Si difende l’ex di Prima Linea, condannato negli anni ’70 per l’omicidio di un agente. La vedova: non mi rappresenterà mai

Stefano Zurlo

da Milano

Il passato resti sepolto sotto terra. Sergio D’Elia, fresco deputato della Rosa del Pugno e segretario d’aula a Montecitorio, non accetta di essere giudicato con il metro della memoria. E respinge al mittente le critiche durissime di chi ha letto il suo curriculum e ne è rimasto sconcertato, perché la storia del parlamentare radicale è un tuffo negli anni di piombo e riapre ferite mai cicatrizzate: D’Elia fu dirigente di Prima Linea e venne condannato a 25 anni per l’uccisione dell’agente Fausto Dionisi, ammazzato il 20 gennaio 1978 a Firenze nel corso di un blitz terroristico al carcere delle Murate. Quell’episodio riemerge ora che D’Elia diventa un rappresentante del popolo. Lui non mostra affatto imbarazzo: «Quel che non accetto è di rimanere ostaggio perpetuo della memoria, del mio passato e di ciò che ho compiuto trent’anni fa». Mariella Dionisi, vedova dell’agente morto alle Murate, la pensa diversamente: «L’elezione di D’Elia mi annichilisce e mi umilia. Una sola cosa è vera: i signori terroristi hanno tutto, i nostri morti niente. Il fine pena vale solo per i nostri morti, mai per loro».
D’Elia rimane in carcere dodici anni, si dissocia dalla lotta armata, nel ’91 viene liberato. E comincia una seconda vita: milita nel partito radicale fino a diventarne cosegretario, fonda nel ’94 l’associazione Nessuno tocchi Caino, per l’abolizione della pena di morte, si lega sentimentalmente alla scrittrice Maria Teresa Di Lascia, morta di tumore a solo 40 anni nel ’94 e vincitrice l’anno dopo del premio Strega con il romanzo postumo Passaggio in ombra. Ora il salto in Parlamento: la sua biografia accidentata si trasforma in un caso pubblico.
Lui non si lascia sfiorare dal dubbio: il presente vince sul passato. «Se qualcuno - scrive D’Elia in una lettera inviata a Fausto Bertinotti e ai colleghi della Camera - ancora oggi, dopo trent’anni, vuole cristallizzare la mia vita nell’atto criminale di allora (che non ho materialmente commesso) e non tener conto della semplice verità che l’uomo della pena può diventare un uomo diverso da quello del delitto, rischia di non cogliere il senso profondo della giustizia, del carcere e della pena descritto dalla Costituzione». Insomma, i conti col passato sarebbero stati regolati: «Ho pagato con 12 anni di carcere il conto che lo Stato e la legge italiana mi hanno presentato. E nel 2000 sono stato completamente riabilitato con sentenza del tribunale di Roma».
Mariella Dionisi gli risponde per le rime in un’intervista a Libero: «In teoria dovrebbe rappresentare anche me e i familiari delle vittime del terrorismo. Sinceramente non mi sento rappresentata». E l’ex ministro Carlo Giovanardi apre un altro fronte polemico. Questa volta a dividere è il giudizio contenuto in un passaggio della missiva di D’Elia ai deputati: «Sono stato condannato in base a uno dei postulati della dottrina emergenzialista dell’epoca, per cui il responsabile di un’organizzazione terroristica andava considerato responsabile dei crimini commessi nel territorio in cui operava.

Ho pagato per ciò che ho fatto o non ho fatto». «D’Elia - replica Giovanardi - non può e non deve presentarsi come vittima di una forzatura della regola costituzionale, mentre furono lui e i suoi complici a stracciare le regole della Costituzione».

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