Non si può non partire da quellimmagine di Alighiero Boetti, I gemelli, del 1968. Perché Live! LArte incontra il rock, la mostra che inaugura sabato al Centro Pecci di Prato, con la curatela di Luca Beatrice e Marco Bazzini (direttore del museo toscano), è il racconto non già di una relazione pericolosa, ma della tangenza e delle occasionali corrispondenze tra un linguaggio nato con lambizione di rivoluzionare non solo la musica popolare, ma anche il costume giovanile da un lato, e il rinnovamento di una tradizione ben più radicata, quella delle arti visive, che nellultimo trentennio del Novecento ha cercato faticosamente un percorso di fuga dalle logiche di sistema che il mercato le aveva imposto, dall'altro.
Rock e arte contemporanea sono state per così dire costrette dalle circostanze a dialogare e scambiarsi esperienze. Senza mai essere la stessa cosa, anche quando sembrano fratelli e indossano lo stesso abito. Chi voglia fruire il percorso che Beatrice e Bazzini hanno allestito, compendiandolo peraltro con i testi del catalogo pubblicato da Rizzoli, cercando di districare lintreccio e i cortocircuiti che queste forme espressive hanno posto in essere, dovrà fatalmente prendere atto di una deficienza eguale e contraria, che ha prodotto, lei sì una sorta di convergente attrazione fatale per il territorio della performance. Perché il punto d'incontro tra arte e rock coincide proprio con quel Live! che ricorre nella titolazione della rassegna.
Così, le sperimentazioni della Land Art richiamano irresistibilmente il Live at Pompeii dei Pink Floyd, le evoluzioni nel fango del pubblico di Woodstock preludono alla body art, e i travestimenti di Luigi Ontani e Urs Lüthi sembrano modellati, o è il contrario?, sugli abiti di scena di Ziggy Stardust. Se è vero però, come sembrerebbe teso a dimostrare anche lopening tintorettiano della Biennale di Venezia, che tutta larte è (stata) contemporanea, proprio attorno alla vitalità del rock, alle ragioni della sua estinzione come rituale di massa, e alla sua trasformazione in armamentario vintage, cè da chiedersi quanto il ricorso insistito alla commistioni con le arti visive non abbia contribuito, ancor prima dellepoca della smaterializzazione, a svuotarlo della sua carica eversiva primordiale e a trasformarlo in un fatto eminentemente pop. E a guardare gli scatti dei set torridi degli Stones e di Hendrix viene da rovesciare la sentenza di Damien Hirst, allorché accusò David Bowie di voler sfruttare la forza della pittura per rivitalizzare la sua musica, rifiutando così la proposta del «duca bianco» di dipingere assieme. In realtà è larte ad aver vampirizzato il rock, mutuandone la capacità di creare messaggi fulminei, molto prima dellinvenzione dei videoclip, attraverso quellincarnazione delle pulsioni che è in sé una definizione autosufficiente di artisticità. Non cè performance artistica in grado di raggiungere la forza evocativa dei quattro Beatles che, in abiti borghesi, suonano per lultima volta insieme in un ufficio della Apple, allora di pranzo del 30 gennaio 1969, senza né pubblico né fotografi, solo per sé stessi. La grande truffa del rocknroll è proprio nellaver liquidato quella forza e quellimpatto, trasformandosi in apparato scenico prima e in immagine da (re)inventare continuamente a tavolino dopo.
Così, le rielaborazioni grafiche di Jamie Reid non ci dicono nulla di autentico su come e cosa suonassero i Sex Pistols, e mirano solamente a far coincidere stile ed estetica, sovrapponendo iconoclastia e icona.
Non è certamente un caso che il gruppo più rappresentativo del rock di oggi, i Radiohead, abbia da tempo deciso di affidare le proprie cover a un pittore e grafico, Dan Rickwood, enigmatico tanto quanto le personalità dei cinque musicisti dellOxfordshire, al punto da essersi nascosto per molti anni dietro alla falsa identità di Stanley Donwood, nom de plume che molti vorrebbero legato al leader stesso della band, Tom Yorke.
Il gioco è credere, anche solo per il tempo di una canzone, che si possano scambiare le parti.
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