Qualcuno forse ricorderà la strage di Ayotzinapa, in Messico, del 2014, allorché un centinaio di studenti di Iguala vennero intercettati dalla polizia che ne uccise 6, ne ferì molti altri e ne sequestrò 43, poi ceduti a una banda di narcotrafficanti che li massacrò e ne bruciò i cadaveri. Quella carneficina ebbe grande eco internazionale e fece scalpore persino in Messico, un Paese uso alle atrocità frutto della connivenza tra istituzioni malate, forze dell'ordine deviate e crimine organizzato.
È da quell'episodio che prende le mosse lo splendido romanzo L'invenzione dei corpi (Fazi Editore, traduzione di Antonella Conti) del francese Pierre Ducrozet, in cui il protagonista, Álvaro, un giovane informatico, scampa a quella strage e, animato da rabbia e voglia di affrancamento, raggiunge l'Eldorado della Silicon Valley, dove dovrà fare i conti con un ambiente competitivo, alimentato dalla sete di denaro e potere e dall'ossessione utopica dell'eterna giovinezza, dominato da figure di mogol planetari come Mark Zuckerberg, Larry Page, Elon Musk e Parker Hayes, un magnate del web che ricerca freneticamente l'immortalità.
A questo punto, però, meglio fermarsi: i libri si leggono e si possono raccontare soltanto in parte. L'invenzione dei corpi merita di essere centellinato, con le sue pagine allitterate, e le sue riflessioni solo apparentemente stralunate sulle tendenze più insane della modernità.
Memorabile è la descrizione della fuga disperata negli Stati Uniti. Ducrozet potrebbe anche indossare i panni umili e logori del wetback - il povero messicano che si lascia tutto alle spalle e tenta la sorte oltreconfine, affidandosi ai pochi scrupoli del trafficante di turno e alla bontà divina - per evitare di stizzire qualche benpensante, ma il risultato non potrebbe essere migliore: raramente mi è capitato di leggere pagine altrettanto commoventi e convincenti in cui si raccontino il dramma e le peripezie di un clandestino che cerca di entrare nel paese del Bengodi, nel giardino del vicino ricco, cioè gli Stati Uniti. In effetti, proprio in questi giorni ho letto di un hashtag lanciato su Twitter, #OwnVoice, che pretenderebbe che a scrivere di un gruppo marginalizzato sia soltanto un esponente del suddetto gruppo. E ad avanzare tale pretesa ci sarebbero parecchi statunitensi di origine messicana. Insomma, l'esatto opposto del concetto stesso di libertà creativa, insito nella letteratura dalla notte dei tempi.
Fortuna che Ducrozet il problema non se l'è posto. Basta leggere un passo come il seguente. «Si cercano i 43 nei dintorni di Iguala. Genitori ubriachi di dolore esplorano la zona scavando la terra con le vanghe, inseguendo le ceneri o le ossa... Álvaro... continua a camminare...
non è la povertà che lo spinge, o l'idea folle di salvarsi... non crede in un mondo migliore... È l'aria di lì che... gli è insostenibile... Si è diretto istintivamente verso nord, il sud non esiste, il sud significherebbe scendere ancora più in basso, e lui è già rasoterra».
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