E così tra i «furbetti del quartierino» (Stefano Ricucci dixit) è finito anche l’Ingegnere: indagato a Roma rischia il rinvio a giudizio insieme ad altre 40 persone. Una compagnia imbarazzante per chi, anche in quanto a stile, è abituato a frequentare il meglio del capitalismo internazionale e che oggi sulle pagine dei giornali sarà accomunato a Danilo Coppola, pettinatura improbabile, origini da borgataro romano, e a Luigi Zunino, modi diretti da provinciale piemontese, oggi in disgrazia con il suo superindebitato gruppo immobiliare. A Carlo De Benedetti non rimane nemmeno la consolazione di aver giocato una partita importante e di essere inciampato in uno degli incidenti di percorso a volte considerati inevitabili da chi ama i soldi e quindi il rischio. No, il suo ruolo è quello di una semplice comparsa, in un proscenio affollato di protagonisti di serie B.
Nel mirino c’è un finanziamento da 100 milioni di euro concesso dalla Banca Intermobiliare di Torino (di cui era consigliere di amministrazione) al gruppo di Zunino. L’imputazione sarebbe quella di ostacolo all’attività di vigilanza: De Benedetti e i suoi colleghi del cda avrebbero mentito alla Banca d’Italia pur di poter continuare a finanziare uno Zunino ormai in crisi di liquidità. Nella stessa inchiesta dei pm Casini e Sabelli (ieri è stato firmato l’atto di chiusura delle indagini, preliminare alla possibile richiesta di un processo), si parla anche di associazione a delinquere, bancarotta, appropriazione indebita, falso, impiego di denaro di provenienza illecita. Accuse, insomma, non proprio da poco e a cui dovranno far fronte gli altri indagati.
Al centro della vicenda c’è il già citato Coppola, immobiliarista improvvisamente balzato alla ribalta nazionale e subito diventato protagonista della stagione delle scalate bancarie (in palio c’erano Bnl e Antonveneta). Seguendo le sue prodezze e il suo crac da 300 milioni i magistrati hanno iniziato a indagare sui finanziamenti generosamente concessi da una banca, Intermobiliare, appunto. Tra l’istituto torinese e il giovane immobiliarista rampante il rapporto era strettissimo: «È come fosse mio figlio», disse in una famosa assemblea Franca Bruna Segre, presidente e vera anima della banca, difendendo il pupillo, ormai in disgrazia. Il fatto è che Franca Bruna Segre non è una qualunque: da sempre appartiene al gotha del business piemontese e da sempre è considerata la «commercialista» di De Benedetti, che già aveva rapporti strettissimi con suo marito, morto anni fa. Per questo De Benedetti era nel consiglio di amministrazione, che, secondo i magistrati, non era proprio rigorosissimo nelle pratiche di fido. Non solo quando serviva a Coppola. Nel 2005 bisognava decidere se finanziare per 100 milioni Zunino (legato a Coppola da alcuni affari conclusi insieme). Una regola prudenziale imposta dalla Banca d’Italia è che un istituto di credito non possa dare troppi soldi a un singolo imprenditore. E la banca aveva già superato il tetto massimo di prestiti erogabili all’ex patron di Risanamento. L’ostacolo fu superato: il prestito fu concesso a una società, «Immobiliare D» e alla sua amministratrice, Stefania Cossetti, trascurando il fatto che l’immobiliare era in pratica nelle mani di Zunino (era lui il vero «dominus» della situazione, come dicono in termini giuridici i magistrati) e che fu lui a incassare i soldi. Un anno dopo lo stesso giochetto fu ripetuto per Coppola. In questo caso i soldi furono dati a sua moglie. Ma qui De Benedetti non c’entra, visto che non era più nel consiglio.
Il risultato è che oggi sotto accusa, oltre a Coppola, ci sono gli uomini a lui più vicini, a partire da suo cognato Luca Necci. Con loro anche Paolo Colosimo, avvocato, già in carcere per un’inchiesta sul riciclaggio internazionale di denaro. Dalla parte della banca rischiano il processo l’amministratore delegato Pietro D’Aguì, la già citata Franca Bruna Segre, il figlio Massimo, e tutti i consiglieri che votarono la delibera incriminata. Quanto a De Benedetti, i suoi rapporti con le banche erano già stati in passato sfortunati. All’inizio degli anni Ottanta entrò nell’azionariato del Banco Ambrosiano con una quota del 2%, ricevendo la carica onoraria di vicepresidente. Chiese di vedere i conti e iniziò subito a litigare con i vertici.
Dopo appena due mesi fu generosamente liquidato e uscì dall’istituto. Il passaggio gli costerà una condanna, poi cancellata in Cassazione. Allora a convincerlo all’operazione fu il carisma di Roberto Calvi. Oggi paga il rapporto con la Segre. Frequentazioni sfortunate.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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