Dalla denuncia di pressioni alla sua lettera di congedo

da Roma

Arrivato di buon’ora a Palazzo della Consulta Romano Vaccarella ha trovato sul tavolo la delibera con la quale la Corte costituzionale ha respinto le sue dimissioni. Dimissioni che ancora non ha ritirato, regalandosi un giorno di riflessione. Mercoledì sera non aveva voluto che il presidente Franco Bile gliela leggesse per telefono, quella delibera. «La vedrò domani, con calma», aveva detto. Ecco, ora il documento era lì, ma lui proprio non aveva voglia di aprire la cartellina. Né di parlare con alcuno.
Così, si è preoccupato di lasciare la sua stanza e trasferirsi in un’altra, con la massima riservatezza. Un modo per evitare visite inopportune. Poi, Vaccarella ha aperto i giornali, ma invece di leggere gli articoli che lo riguardavano ha deciso di dedicarsi al Sudoku. Un giochetto utile per rilassare i nervi e far sbollire l’ira accumulata. «Adesso me lo devo proprio leggere», ha pensato a un certo punto. E ha incominciato a soppesare quelle 20 righe, a lungo limate dai suoi 14 colleghi dell’Alta Corte per far rientrare le sue dimissioni di protesta contro le pressioni di tre ministri e un sottosegretario riguardo all’ammissibilità dei referendum sulla legge elettorale. Non sprizzavano coraggio (ma su Don Abbondio Manzoni diceva che chi non ce l’ha non se lo può dare), però c’era un chiaro altolà al governo per le pressioni sulla Consulta. Una presa di posizione che ha solo un precedente: nel marzo 1957 il presidente dell’Alta Corte Enrico De Nicola pretese che il governo intervenisse sul Vaticano considerando un’ingerenza un articolo dell’Osservatore Romano sulle sentenze sulla censura della Consulta e ottenne una rettifica. Pochi giorni dopo De Nicola si dimetterà e così farà nell’’87 Giuseppe Ferrari: Vaccarella è il terzo nella storia della Consulta a fare questo passo.
Il passaggio della delibera in cui si citano le frasi del premier su autonomia e indipendenza dell’Alta Corte, lette come disapprovazione del governo alle dichiarazioni alle stampa di Chiti, Mastella, Pecoraro Scanio e Naccarato, strappano a Vaccarella un sorriso di amara ironia. E dire che Prodi nelle stesse ore parlava quasi di complotto, dietro la strana «tempistica» delle sue dimissioni! Per il fatto che lui è stato eletto nel 2002 giudice costituzionale su indicazione di Fi il centrosinistra alimenta l’idea di un piano di Silvio Berlusconi per usare il referendum come una clava contro il governo.
Ma lui, Vaccarella, sa bene che il Cavaliere ha appreso dalla tv delle sue dimissioni, come gli altri politici. Soprattutto, sa bene come si è arrivati a quelle 20, sofferte, righe della delibera.
Tutto è cominciato con la sua protesta al presidente Bile e al vice Giovanni Maria Flick, all’indomani dell’articolo del 26 aprile sul Corriere della Sera, con quelle dichiarazioni che presentavano la Consulta come «sensibile» agli appelli delle istituzioni e orientata a respingere i quesiti a gennaio. Vaccarella ha fatto fuoco e fiamme: se non venivano smentite dagli interessati o dallo stesso Prodi per la Consulta sarebbe stato un gravissimo danno d’immagine. E ha preannunciato le dimissioni, pensando in cuor suo che tutti gli altri avrebbero dovuto fare lo stesso passo. Qualcuno, in effetti era pronto a seguirlo. Ma Bile e Flick hanno cercato di placarlo in ogni modo, hanno promesso che avrebbero parlato con Palazzo Chigi, che la smentita sarebbe arrivata. Era venerdì ed è seguito il silenzio. Lo stesso di sabato. Sembra che, avvertito del clamoroso gesto che Vaccarella preparava, Prodi abbia assicurato che al prossimo consiglio dei ministri avrebbe parlato lui con i ministri chiacchieroni, per redarguirli. «Eh sì, di fronte ad un’offesa pubblica si risponde con un buffetto privato», ha commentato Vaccarella. No, non bastava. Si è arrivati così a domenica e sia Bile che Flick hanno avvertito il premier che il giudice non aveva ripensamenti. In serata, a Bologna, Prodi fa ai giornalisti una dichiarazione a freddo che pochi inquadrano. Una dichiarazione generica: «Non si deve discutere di ammissibilità dei referendum se deve occuparsene la Corte costituzionale, perchè ha sempre agito con indipendenza e serietà», è il succo. Nessun riferimento alle frasi attribuite ai suoi ministri, nessuna smentita. Vaccarella rimane di pietra. Flick tenta di convincerlo: «Ma che fai? Hai visto la dichiarazione di Prodi?». Appunto, gli sono sembrate «commoventi». Per non dire ovvie, inadeguate: sarebbe stata una notizia che il presidente del Consiglio parlasse diversamente! Lunedì Vaccarella arriva alla Consulta sempre più convinto che, anche da solo, deve dire: io non ci sto. Lo descrivono «fumantino», ma solo sulle cose serie. E questa lo è, eccome. Nello studio sul colle il giudice apre la rassegna stampa e legge con attenzione, per essere sicuro che non ci sia qualche altra dichiarazione, una smentita finalmente, un segnale che si è compresa la gravità della situazione. Niente.

Così, il giudice consegna la lettera di dimissioni a Bile, che l’accoglie costernato. Anche perché immagina che non finirà lì, che quel gesto ne impone un altro, questa volta da parte di tutta la Corte.Ed è inutile che Prodi ripeta, intanto, la sua debole dichiarazione .

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