DERAIN Rivoluzionario per tradizione

A Ferrara una bella monografica del maestro francese. Che fu figlio di molti stili e «vittima» di un fatale viaggio nella Germania nazista

C’è un romanzo stupendo del tedesco Siegfried Lenz, Lezione di tedesco, che narra la storia di un giovane chiuso in riformatorio che ricorda il suo passato di figlio di un poliziotto tedesco durante la seconda guerra mondiale. E racconta del pittore espressionista che i poliziotti nazisti vedevano come degenerato e degli sforzi di suo padre, fedele al dovere, per impedirgli di dipingere. Ma lui, giovane tedesco idealista e romantico, era amico del pittore e pensava di salvarlo. Invece no. Perse tutto, e se stesso.
C’è un pittore, vero e in carne e ossa, un francese, che dipinge tutto e tutto ama e comincia coi fauves per finire coi classici, amico di Matisse e di Vlaminck, un uomo, amico e illustratore di Apollinaire, che partecipò, nel 1941, alla famosa mostra d’arte tedesca, in Germania, coi pittori e con lo scultore preferito da Adolf Hitler, Arno Breker. Ecco che arriva la storia. Quella di oggi e quella di ieri. La storia ha fatto pagare a uno dei più grandi, liberi, entusiasti pittori del nostro secolo quella mostra (nel romanzo la storia fa scontare al ragazzo il suo tentativo di salvare l’artista dalle grinfie del padre e dalla polizia, dimostrando che tutto è inutile, tanto il rogo dei quadri quanto la salvezza di sé).
La storia dell’arte è la disciplina più serva di tutte. Basta vedere la successione dei quadri di André Derain esposti a Ferrara per la grande monografica italiana a Palazzo dei Diamanti (fino al 7 gennaio, a cura di Isabelle Monod-Fontaine, catalogo Ferrara Arte). Basta leggere il cautissimo capitolo che cerca di spiegare in catalogo le ragioni della sfortuna critica del pittore e scultore, «un viaggio di troppo», per capire che cosa successe davvero all’artista dopo quella mostra. Derain è morto e non può entrare nella giostra disordinata e patetica delle scuse e dei perdoni con cui il nostro tempo ha deciso di far inginocchiare la storia vera alle ragioni dell’opportunismo. Lepanto, le crociate, gli albigesi e via di seguito.
La mostra di Derain è una bellissima rassegna, è la vicenda di un grandioso pittore. Ma il suo destino, ingrato e duro, è cronaca di oggi, e sta tutta intera in quella paginetta, in quel viaggio: la Germania, il 1941. Sarebbe bello che fosse soltanto un romanzo, anche senza lieto fine. Ad Arno Breker, scultore classico dell’architetto Albert Speer, dopo la guerra chiesero di chiedere scusa. Disse di no. Stalin lo invitò in Russia, disse di no.
La vita di Derain fu una storia solitaria di innamoramenti e di perdite, di guerre lunghissime. Sette anni gli costò la prima, «un vero insulto all’individuo - diceva - un furto di vita». La Somme, lo Chemin des Dames. Noi oggi guardiamo le tele, e non sentiamo il rumore che accompagnava le lettere di artisti come Derain, come Braque, come Franz Mark o Ludwig Kirchner. Di qua o di là che fossero. Noi oggi guardiamo una rassegna ben ordinata e ben fatta dove l’uomo Derain combatte tante battaglie tutte insieme. Pratica stili diversi, gli piace tentare la forma e gli piace sondare le nuove possibilità che le avanguardie gettano sul piatto nuovo della modernità. Cubismo, postimpressionismo, primitivismo, e infine e sempre ancora classicismo. «Fare la rivoluzione nell’arte, è capire la tradizione, nel momento in cui non la si capisce più», proclama negli anni Quaranta.
Nato nel 1880 a Chatou, nei pressi di Parigi - la città dei canottieri di Renoir - si legò subito all’impeto selvaggio dei fauves capitanati da Matisse; divenne amico di Vlaminck, di Picasso e di Braque. Risalì pian piano le fonti della forma, per ritrovarla classica e larga, ferma, rassicurante e certa. Da giovane faceva copie dei «primitivi» al Louvre - «la vera, la pura, l’assoluta pittura» -, poi cominciò a guardare Renoir, David, Tiziano, fino a Raffaello e Ghirlandaio, per riconquistare quel maestoso senso di possesso dello spazio nel quale la figura sta sicura e immutabile come una statua.
Il Dorso, opera del 1923, una schiena ignuda e ignota su cui il colore si stende con incanto e rispetto, pensando a Tiziano, a Velázquez. Il Nudo del 1925, serrato entro una linea purissima, brunito come un bronzo, saldo come una cariatide. E i volti, minuti, aggraziati, la stupenda successione di nature morte. La pittura ribolle e si placa al momento di posarla, come fosse una tregua stabilita. Concertata, accordata. La pittura è come una sirena e gli fa vagheggiare diverse soluzioni. Perché dirle di no? Chi deve stabilire qual è lo stile? La ricerca di una forma è continua, è stupendamente vibrante, è un pezzo di diario che continua.
In quel famoso viaggio del 1941 Derain si portò un elenco di artisti prigionieri in Germania, forse per propiziarne la liberazione.

Con lui c’era il grande scultore classico Aristide Maillol, c’era Van Dongen: «Che carovana» scrisse Derain al figlio.
Dopo la guerra André Derain fu dimenticato. Visse e volle essere solo. Gli chiediamo - noi, oggi - perdono?
LA MOSTRA
André Derain
Ferrara, Palazzo dei Diamanti.
Fino al 7 gennaio.

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