Il diario del tenente nella neve

I tanti lettori de Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern ricordano i nomi degli alpini che furono protagonisti, in quella celebre opera, della clamorosa disavventura dell’esercito italiano in terra sovietica durante la Seconda guerra mondiale quando, alleati coi tedeschi, ci trovammo del tutto impreparati a fronteggiare nel clima proibitivo dell’inverno russo un nemico ferito ma potente, le cui ragioni, in quel momento storico preciso, valevano assai più delle nostre: impossibile scordarsi il povero Giuanin che, rivolto al futuro scrittore, nel corso della ritirata, chiedeva sempre con apprensione e speranza: «Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?». E chi, d’altra parte, dopo aver letto anche una sola volta quello straordinario libro sulla tragedia di ogni guerra, ma anche sul carattere indomito del popolo italiano, può dimenticare il tenente Cenci, il caporal maggiore Antonelli, il sergente Baroni e tutti i capisquadra: Minelli, Moreschi, il Baffo e Pintossi?
Fra questi memorabili personaggi c’era anche il tenente Cristoforo Moscioni Negri, nato a Pesaro il 9 marzo 1918 e morto a San Marino il 9 giugno 2000 che visse, insieme al sottufficiale di Asiago, gli episodi cruciali dello scontro bellico, dal caposaldo di Ukranska Builowo alla battaglia di Nikolajewka. Anche Moscioni, come il suo più famoso subalterno, compose un libro di ricordi sulla sfortunata spedizione dell’Armir che venne pubblicato da Einaudi nel 1956 con un commento di Mario Rigoni Stern: I lunghi fucili (dal nome dell’arma antiquata, mod. 1891, usata dagli alpini contro i temibili parabellum a 72 colpi degli avversari). Assai opportunamente questo testo, non più disponibile da molti anni, viene ora riproposto dal Mulino (Cristoforo Moscioni Negri, I lunghi fucili. Ricordi della guerra di Russia, pagg. 134, euro 10,80), impreziosito dall’introduzione chiarificatrice di Ugo Berti Arnoaldi: «Il tenente nella neve». In appendice figurano la vecchia presentazione di Mario Rigoni Stern e la nota redazionale di Italo Calvino.
Per chi conosce Il sergente nella neve, fa impressione ritrovare ne I lunghi fucili lo stesso nodo tematico e i medesimi personaggi: ma il confronto finisce qui. Da una parte c’è potenza epica, originalità linguistica, carica emotiva: insomma le doti native del vero scrittore; dall’altra abbiamo il diario, comunque vibrante e appassionato, di un ufficiale borghese, campione di sci, che, nella rotta disastrosa in cui si trova coinvolto, matura una consapevolezza etico-politica talmente spiccata da spingerlo a diventare, dopo l’8 settembre, capo partigiano, aggregandosi poi a un battaglione Gurka dell’VIII armata britannica impegnato a risalire la penisola.
Il tenente Moscioni era l’ufficiale che guidava il caposaldo alpino sulle rive del Don. Fu lui a scegliere Mario Rigoni Stern quale vice-comandante prendendolo dal plotone mitraglieri di Sarpi. E nel momento in cui quest’ultimo amatissimo tenente catanese restò ucciso da una pattuglia russa infiltrata nelle trincee italiane, toccò proprio a Moscioni il compito di comunicarlo al sergente: «“Hanno ammazzato Sarpi", gli dissi, “e due dei suoi alpini”. Rimase fermo un po’ e mi parve piangesse. Poi tolse il moschetto di spalla e fece un movimento come per uscire dalla trincea e andare di là verso il bosco. Ma io lo trattenni tirandolo giù per un braccio. Sta’ fermo Rigoni». Il rapporto fra il tenente e il sergente è singolare: il primo dovrebbe essere l’intellettuale, il secondo l’uomo d’azione. Infatti è così. Ma il sottufficiale spariglia le carte. Leggiamo ne I Lunghi fucili: «Era molto diverso da me, sereno e paziente, e la sua presenza serviva agli alpini... Ma spesso anche io ne avevo bisogno... Quella notte mi parlò dei grandi romanzieri russi dell’Ottocento che lui predilegeva fra tutti gli scrittori...». Ed ecco le parole che Rigoni aveva dedicato al suo superiore ne Il sergente nella neve: «Il tenente Moscioni che comandava il caposaldo era come noi. Riposava lavorando come i muli, scavava camminamenti con noi durante il giorno e veniva con noi di notte a portare reticolati davanti alla trincea...».
Il caposaldo di Ukranska Builowo sarà per il tenente Moscioni ciò che la battaglia di Borodino rappresentò per Pierre Bezuchov: la conquista di maturità indispensabile per diventare adulto. Fu lo stesso Rigoni, nello scritto di presentazione a I lunghi fucili, a richiamare il grande personaggio di Guerra e pace quale modello umano utile per interpretare il Bildungsroman del giovane tenente. Il quale, sperimentando in prima persona il caos organizzativo subìto dai soldati come un castigo, non riuscì a trattenere l’amarezza. Dai vertici militari arrivavano soltanto, parole sue, «inutili e prolisse circolari: il nostro maggiore, al rapporto ufficiali, usava distribuirle come carta per bassi servizi a chi ne aveva bisogno».
Questa sconsolata persuasione cominciò a stamparsi in lui nei modi indelebili che sono propri delle scoperte traumatiche già durante il lungo viaggio ferroviario d’avvicinamento al fronte russo, quando, nella martoriata Polonia, Moscioni, confuso in mezzo alla folla plaudente, vide coi suoi occhi l’impiccagione di piazza di alcuni civili da parte dei nazisti: «La donna restò presa dalla corda per la bocca e la nuca guizzando nel vuoto come un pesce, all’uomo si ruppe la corda e cadde per terra...

Allora impugnai il revolver e mossi in avanti ma un tedesco mi precedette: sparò rapido, prima sull’uomo per terra e lo uccise subito, poi su di lei... Quindi rimise l’arma nel fodero e andò via silenzioso. Gli altri ancora ridevano e scattavano foto».

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