«Il difetto degli italiani? È che hanno tutti ragione»

Certi registi pubblicano saggi e memorie, raccontando una storia: la loro attraverso i loro film. Per sentirne un’altra - in apparenza di un singolo, in sostanza di un popolo - occorreva Paolo Sorrentino, quarant’anni spesi fra quattro film - L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, Il divo - e, ora, il romanzo Hanno tutti ragione (Feltrinelli, pagg. 318, euro 18). Poche parole del libro lo sintetizzano: «Bisogna comprendere gli altri anche nel momento in cui ti stanno uccidendo. Senza mai sottovalutare la forza sbilenca dell’ironia». Puro stile Sorrentino.
Nel suo primo film, L’uomo in più, c’era un cantante, signor Sorrentino...
«E un calciatore, perché il mio primo film era come due mediometraggi connessi».
Si disse che lei si fosse ispirato ad Agostino Di Bartolomei e a Franco Califano.
«C’era qualcosa di Califano nel film e c’è nel romanzo. Ma c’è qualcosa anche di altri: Fred Bongusto e Peppino Gagliardi, che avevo incontrato prima di girare».
Che impressione ne ebbe?
«Di persone che hanno potuto sedersi tanto al night-club, col malavitoso, quanto nel salotto borghese o aristocratico».
Dunque?
«Un cantante è un traghettatore, passa credibilmente da un ambiente all’altro e la storia con lui».
Non ci sono persone esistenti o esistite ritratte più o meno fedelmente?
«No. Anche quando cito Peppino di Capri, gli aneddoti sono di pura fantasia».
Lo conosce?
«No. E non ho conosciuto Frank Sinatra, che appare all’inizio del romanzo».
Perché Sinatra?
«È stato un mito assoluto per mio padre».
Ma è una canzone di Califano ad aprire «Hanno tutti ragione».
«In exergo a ogni capitolo del romanzo c’è un brano di canzone di autori o interpreti diversi».
Il primo citato dà però il tono al resto.
«Le ho dato quest’impressione? È un mio errore. L’intento era raffigurare un cantante rappresentativo di un paio di generazioni».
Perciò si chiama Tony: ogni Tony canta in Italia. Ma perché «Pagoda»?
«L’ho scelto perché suona esotico, orientale. E perché evoca una Mercedes di quarant’anni fa».
Di solito scrive romanzi chi non è ancora regista. O non lo è più. Tranne Elia Kazan e lei.
«Non mi lusinghi... Scrivere m’è sempre piaciuto. Nell’ultimo decennio, la questione era averne il tempo».
E dopo il successo del «Divo» l’ha avuto?
«Sì. Ho cominciato alla fine dell’estate scorsa».
Consegnando il manoscritto a fine anno.
«Infatti. Scrivevo dodici-tredici ore al giorno».
Più di un giornalista...
«Se faccio una cosa, smetto solo se sto per crollare».
Fonti del romanzo?
«Ricordi, invenzioni, mia madre, mio padre...».
Già, lei racconta anni nei quali era un bambino.
«Hanno tutti ragione deriva dalla mia prospettiva di allora verso i miei genitori. Reminiscenze di bimbo, per il quale il mondo di allora era perfetto».
Ricordare è giudicare.
«Ho adottato i giudizi dei miei genitori. Lì comincia l’idea di far mie ragioni altrui, pratica desueta, specie oggi. Ma le ragioni sono molteplici».
Tony Pagoda parla un napoletano italianizzato.
«La piccola borghesia - come quella napoletana del Vomero, dove sono cresciuto - rifugge dal dialetto: l’italianizza rocambolescamente, in un modo divertente, ma che non esalterebbe un purista».
Lei ama Céline...
«Ne ho letto e riletto i principali libri. Col suo linguaggio, Céline ti permea».
Galeazzo Benti, Adolfo Celi, Luciano Lucignani lavorarono a lungo in Brasile. Come Pagoda.
«Ma non ho pensato a loro. Il viaggio al cuore del Brasile serve a sottrarlo all’Italia in anni tumultuosi».


Bianca, la copertina ha al centro uno scarafaggio. Che impressione!
«È stata un’idea dell’editore. Lo scarafaggio è un atleta nella lotta per la vita e Tony Pagoda lo scopre a Manaus. Gli servirà saperlo, tornato in Italia...».

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