Ogni anno i consumatori italiani spendono dieci miliardi di euro per sostituire smartphone impossibili da aggiornare, televisori che improvvisamente non si accendono più, computer troppo lenti, lavatrici con la pompa dell'acqua inutilizzabile. Tutta colpa della cosiddetta obsolescenza programmata, ovvero la «data di scadenza» di dispositivi tecnologici ed elettrodomestici. Molte case di produzione decidono, infatti, a priori quanto tempo un apparecchio debba durare. E poi, complice l'assenza dei pezzi di ricambio e i costi di riparazione eccessivamente elevati, spingono gli utenti a comprarne uno nuovo.
Si tratta però di una pratica aggressiva e illegale, che ha portato diverse autorità nazionali per la concorrenza con l'italiana Agcm in prima fila a prendere provvedimenti. Sono così fioccate multe salate ai danni delle maggiori multinazionali, che al momento rappresentano l'unico vero argine contro il fenomeno. Unione europea e Parlamento italiano non hanno infatti ancora messo a punto una legge ad hoc, anche se la linea è stata ormai tracciata: «Nel nostro Paese c'è una bozza di provvedimento che impone la disponibilità dei pezzi di ricambio nei dieci anni successivi all'uscita di produzione di un bene, oltre che garanzie più lunghe conferma Silvia Bollani di Altroconsumo -. L'obiettivo è convincere gli utenti a riparare e riciclare. In fase di definizione è anche la normativa comunitaria». All'inizio di marzo il Commissario europeo Virginijus Sinkevicius, responsabile dell'ambiente, ha annunciato la presentazione di un progetto di legge che istituirà una sorta di «diritto alla riparazione»: le aziende saranno obbligate a costruire i loro prodotti in modo che durino di più, siano più facilmente riparabili e riciclabili.
Nel frattempo la fine anticipata di dispositivi ed elettrodomestici costa, in tutta l'Unione europea, qualcosa come cento miliardi di euro ogni anno. E contribuisce a rendere complesso il sistema di smaltimento di questi rifiuti speciali, catalogati come Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Perché se fino agli anni Settanta un apparecchio durava almeno vent'anni, oggi la sua efficienza termina dopo cinque. Nei casi più estremi, perfino due. A confermarlo sono i dati raccolti nell'ambito del progetto europeo Promt, con il quale ai consumatori italiani, belgi, spagnoli e portoghesi è stato chiesto di indicare quali siano i problemi più frequenti legati all'obsolescenza.
I PEZZI DI RICAMBIO
Nel nostro Paese i numeri sono stati raccolti da Altroconsumo e raccontano che gli smartphone vengono cambiati di frequente a causa della durata della batteria e dell'efficienza del sistema operativo, che dopo qualche anno non può più essere aggiornato. Le lavatrici vengono rottamate perché si rompono i cuscinetti a tamburo e la centrifuga, i televisori soprattutto quelli smart perché lo schermo non funziona più o perché la scheda madre va in tilt. Sono proprio i cellulari gli oggetti più esposti al fenomeno, seguiti a distanza da tablet e televisori. Una volta terminato il loro brevissimo ciclo di vita vengono sostituiti, senza alcun tentativo di riparazione. «Ormai si è affermata una cultura dell'usa e getta, anche perché sistemare questi apparecchi spesso è più costoso che ricomprarli prosegue Bollani -. Ma l'obsolescenza è anche psicologia: gli utenti sono sommersi dai nuovi modelli, sempre più efficienti e accattivanti. Così percepiscono quelli che già posseggono come vecchi, e così sono spinti a cambiarli prima ancora che smettano di funzionare». Ma c'è di più: «Alcuni apparecchi hanno al loro interno meccanismi in grado di modificare l'efficienza della batteria, riducendone il ciclo di durata racconta Donato Pace, responsabile nazionale dello Sportello tecnologico del Codacons -. E questo senza che i consumatori lo sappiano. Per due anni il dispositivo si carica regolarmente, poi improvvisamente diventa poco efficiente. Questa è senza dubbio una forma di obsolescenza programmata». Ma ci sono anche casi nei quali oggetti tecnologici come i cellulari non possono più essere aggiornati o non supportano più determinate applicazioni.
MULTINAZIONALI MULTATE
«Le multe con cui si colpiscono le multinazionali, anche quelle salate, sono sempre irrisorie rispetto a quello che le aziende guadagnano da questi comportamenti prosegue Pace . La questione riguarda beni altamente tecnologici, ma anche semplici elettrodomestici. In questo caso le aziende decidono di usare materiali più scadenti, li studiano appositamente in laboratorio con un pool di ingegneri. Scegliendo alla fine quelli che sotto stress dimostrano di sopravvivere per meno tempo. Possibilmente non più di due anni, perché è proprio questa la durata media della garanzia. Si tratta di un chiaro orientamento di marketing, ma anche di un calcolo basato sulla necessità di abbattere il più possibile il costo finale». Insomma, alla base c'è una precisa politica aziendale, che però non sempre premia.
A dimostrarlo sono le multe comminate negli ultimi anni alle maggiori multinazionali della tecnologia. Una delle più salate 25 milioni di euro è arrivata ad Apple. Mittente: la Direzione generale per la concorrenza, il consumo e la repressione delle frodi in Francia. L'accusa è relativa alla mancanza di informazioni sul rallentamento dell'iPhone a seguito di un aggiornamento del software. Poco prima il colosso fondato da Steve Jobs aveva pagato altri dieci milioni di euro, questa volta in seguito a un'indagine condotta dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato in Italia, per la stessa ragione. Mentre una contravvenzione da altri cinque milioni di euro era stata recapitata a Samsung. Questo è possibile perché nel nostro Paese, pur mancando una disciplina specifica, «i comportamenti delle imprese volti a favorire l'obsolescenza programmata dei beni di consumo sono suscettibili di integrare pratiche commerciali scorrette nei confronti dei consumatori e delle microimprese, ai sensi del Codice del consumo», fanno sapere dall'Agcm. «L'Autorità - proseguono - sta esaminando alcune segnalazioni relative ad altre condotte delle imprese che possono favorire l'obsolescenza programmata di beni di consumo». Una pratica non solo scorretta. Ma anche poco lungimirante.
«Oggi il marketing punta tutto sul rapporto di fiducia con i clienti conferma Alessandro Arbore, docente di Marketing allo Sda Bocconi -. Solo così si moltiplicano le occasioni di business nel lungo periodo. Tradire questa fiducia attraverso pratiche scorrette può rivelarsi un boomerang». Naturalmente non tutte le multinazionali agiscono in malafede.
«A volte più che parlare di obsolescenza programmata bisognerebbe parlare di obsolescenza simbolica: le aziende fanno percepire un bene come vecchio, per spingere i clienti verso i nuovi modelli» conclude Arbore. Insomma, più che le multe a far cambiare direzione potrebbe essere una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori.
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