Discesa agli inferi di un puro folle

Jürgen Flimm, regista del «Wozzeck» programmato alla Scala, oltre che Intendant e direttore artistico del Festival di Salisburgo accanto a Markus Hinterhäuser, ama Alban Berg. Lo pratica da sempre e na ha scandagliato l'anima dell'intera produzione teatrale. Il suo «Wozzeck», allestimento scaligero del '97, ripreso l'ultima volta nel febbraio 2000, è crudo e realistico. Giocato sulla violenza tangibile della fisicità più che sull'allusione del simbolo. L'opera, suggerita all'autore dalla visione (Vienna, 1914) del Woyzeck di Büchner (che diventa Wozzeck per un errore di lettura dell'adattatore Karl Emil Franzos) ha una gestione travagliata. Sarà rappresentata alla Staatsoper di Berlino solo il 14 dicembre del 1925.
È la vicenda esemplare del rapporto tra gente con un posto al sole e una manciata di diseredati. Un j'accuse politico e sociale tanto del drammaturgo che del musicista. In Berg, che si discosta da Büchner sulla scorta di Franzos, il soldato Wozzeck ama Marie dalla quale ha un figlio, si confida con Andres, si sottopone ai turpi esperimenti medici del Dottore che lo demonizza e terrorizza, vien preso da un senso di perdita e disgragazione. Sostituisce la coscienza smarrita con la preveggenza dei puri folli, dei profeti, dei sensitivi. Allora non esita a uccidere la sua donna che l'ha tradito e a lasciarsi travolgere dal gorgo dello stagno dove era tornato per cercare il coltello del delitto. Il bimbo resta solo. Senza spiragli. Cullato dalla malinconia senza speranza di un remoto Hopp, Hopp! Büchner, la fonte letteraria, è un romantico che l'ipersensibilità porta verso le nuove sirene psicanalitiche. Berg, l'allievo di Schönberg, è uno moderno che getta il ponte sul futuro utilizzando per la vecchia forma dell'opera nuove forme e soprattutto nuove concezioni armoniche.
Il suo «Woyzeck» è diviso in tre atti di cinque scene ciascuno. I 15 brani ricalcano una forma musicale. Tutti sono liberamente atonali. Il linguaggio per conferire un realismo espressionist è il mix di canto, parlato e cantato-parlato, lo Sprechgesang. Molti i Leitmotive che alludono a persone e cose. Luce, notte, acqua, silenzio, paura, coltello... Molte, in quest'opera senza Dio (dice Flimm che chi non crede in Dio ha la sola possibilità della comprensione degli uomini, oppure, come nel caso del soldato Wozzeck, la follia) le citazioni dei Vangeli. Marie, che sulle prime esprime rabbia e selvaggio desiderio di sesso, alla fine si identifica in Maddalena penitente. La regia risolve il passo narrativo e psicologico con una scena fissa (Erich Wonder), concava e violastra che lo spostamento di alcuni oggetti fa diventare casa, piazza, bosco, esterno. Due sedie per la culla del bambino, due fascine per il bosco, una bacinella per la barba del Capitano, un camice e spettatori con tuba tipo Lezione di anatomia di Rembrandt per la sperimentazione. Non è né grido espressionista né nero cupo di dissolvenza esistenziale. Ma un grigio che coniuga desolazione e grido: come chiedeva Berg all'indomani delle prime recite.
Il cast vocale è guidato dal Wozzeck di Georg Nigl e dalla Marie di Evelyn Herlitzius. Sul podio del Piermarini, dopo Mitropulos, Abbado e Sinopoli e Conlon, il più sorprendente dei nostri “giovani” direttori. Daniele Gatti, mille allori fuori casa (ma anche direttore musicale a Bologna) in mecche come Salisburgo, Berlino, Dresda, Monaco. Persino Bayreuth, il cui mitico festival wagneriano è inaugurato quest'anno dal suo Parsifal.

Esplosione di popolarità anche da noi, ma da pochissimo. Grazie soprattutto a un Lohengrin da manuale. Il suo «Wozzeck», che chiuderà sulla desolazione senza pietà del piccolo orfano, sarà certo tra il meglio che ci sia.

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