Un dizionario per interpretare l'immaginario di un territorio

Il sociologo Stefano Allievi "foresto" ma venetizzato ragiona, parola per parola, su dove va la locomotiva d'Italia

Stefano Allievi è professore ordinario di Sociologia all'Università di Padova. Nato a Milano, da anni vive il Nordest, seppure da foresto, ne ha frequentato una delle fucine intellettuali, l'ateneo patavino, e per motivi abitativi la campagna, il versante più popolare. Tanto che i suoi figli ne hanno appena assimilato il dialetto e lui ne è stato cambiato attraverso un perenne processo di «venetizzazione», per usare le sue parole. Ecco allora spiegato perché Allievi, che di Veneto e dintorni ha scritto molto, abbia composto un Dizionario del Nordest (Ronzani editore, pagg. 188, euro 18). Il libro, il cui sottotitolo è «Contributi per l'analisi di un immaginario», è proprio costruito per lemmi, per parole guida. E ha il pregio, con piglio sociologico, di raccontare anche quanto il Nordest sia cambiato e non possa più essere schiacciato sulla sua immagine tradizionale, che al massimo è memoria ma non più specchio.

Come è chiaro ai più: del Nordest che fu il cuore della Balena bianca democristiana non è rimasto molto, nemmeno è considerabile la Vandea d'Italia, sia che lo si guardi dal punto di vista della religiosità sia da un certo punto di vista politico. Il Nordest continua a cercare una sua identità nel passato ma è costretto, anche, a reinventarsi un futuro che non può essere più immaginato a colpi di capannoni e villette geometrili. Alla fine, per certi versi, in un mondo globalizzato hanno resistito meglio al cambiamento dei mercati e del produrre le bellezze naturali o la lunga tradizione culturale, che è qualcosa di diverso dalla verniciata identitaria o dalla (più che comprensibile) arrabbiatura fiscale.

Tutti temi su cui Allievi riflette con pacatezza e varietà d'argomenti. Parte dal termine «Accoglienza», anche se potrebbe non sembrare proprio una parola cardine del Nordest. E invece spiega bene quanto questa parola sia importante, in una regione che ormai macina record di presenze turistiche e che ha scoperto o riscoperto una vocazione verso l'altro. Del resto, una vocazione anche naturale, per una terra che ha un lungo passato di emigrazione. Ma questa vocazione stenta poi a diventare sistemica, a superare una certa diffidenza verso il foresto, e il Nordest che ha praticamente tutto - si va da Venezia all'enogastronomia, ai paesaggi naturali unici - finisce per pagare dazio alla concorrenza di altri territori del Mediterraneo. L'impressione di Allievi è che la Venezia dei fondachi (da funduq, che in arabo vuol dire appunto albergo) fosse, alla fine, proporzionalmente più aperta e attrattiva di quanto si riesca ad essere nel presente. E quindi si va dritti verso «Ambiente». Il lemma racconta tanto di un territorio soggetto a un altissimo consumo del suolo o a un livello notevole di inquinamento delle falde. Eppure adesso che il capannonificio - «94 mila capannoni, uno ogni 53 abitanti!, 32 mila solo tra Padova e Treviso» - mostra la corda, per la delocalizzazione di moltissime produzioni, il lemma «ambiente» va immediatamente in risonanza cognitiva con la già citata «Accoglienza» e anche con «Attrattività», che lo segue. E l'attrattività per il Veneto rischia di diventare un problema a lungo termine. Scrive Allievi che il Veneto paga un marketing in negativo che rischia di allontanare i suoi stessi numerosi e ben formati laureati: «Non abbiamo abbastanza posizioni skilled, e abbiamo un'impresa troppo polverizzata, e troppo poco presente nei settori innovativi». A torto o ragione, per l'autore c'è il pericolo che a volte l'ostentato «prima i veneti» nasconda il fatto che, in realtà, ci sia troppo poco welfare per tutti, veneti e non veneti. E che questo renda difficile competere con la Germania, la Norvegia o anche soltanto con Milano, quando si deve trattenere un giovane.

E riflettendo, di parola in parola, Allievi arriva sino ad «Autonomia». Il termine gli piace, ma non nasconde la paura che sia diventata anche un paravento. «L'autonomia, in Veneto è tutto: la risposta ad ogni quesito, la soluzione per qualsiasi problema. Purché non si chieda veramente in che modo». I veneti a questo punto secondo lui vorrebbero vederla declinare in una cultura solida e proclamare di meno. Insomma, il Nordest cerca una via che non può essere quella di un «rustico popolarismo da osteria» o «l'ingenuità senza prospettive dei serenissimi combattenti e del loro mitico tanko». Altre parole poi come «secessione» sono andate definitivamente in cantina, perché il mondo è globale e alla fine hanno prevalso altri concetti, perché è difficile pensare di fare la secessione seduti in un All you can eat fusion cino-giapponese.

E allora si deve ragionare rimbalzando tra il lemma «schei» (che prima facevano rima con etica del lavoro e ora non sempre) e «suicidio» (perché di lavoro perso si può morire) o «emigrazione» che torna. Leggendo voce per voce ci si trova, insomma, davanti ad un Nordest mutato e mutevole, che cerca una forma nuova, ma tenendosi il più possibile ancorato alle sue radici.

Con potenza profetica il bandolo della matassa potrebbe essere stato identificato, già molti anni fa, da Andrea Zanzotto, con un pugno di incredibili versi citati da Allievi: «In questo progresso scorsio/ non so se vengo ingoiato/ o se ingoio». I veneti con una atavica resistenza alla fine forse vorrebbero la risposta e, forse più ancora, non fare nessuna delle due cose.

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