Un libro da tenere sul comodino nei giorni che precedono la partenza, da mettere in valigia e rileggere lontano da casa. O anche rimanendo a casa, perché parla del viaggiare in tutte le sue forme e metafore e lo fa attraverso una incantevole silloge poetica che mette daccordo il camminatore incallito, pedule in spalla alla Bruce Chatwin, e il sedentario irriducibile, lamante del volo interiore tracciato nei reami della mente. Parole in cammino (Qiqajon, pagg. 216, euro 13) è un libro dallimpianto semplice e dalla realizzazione complessa: una singolare miscela di versi antichi e moderni (da Ovidio e Orazio a Kavafis, dal Vangelo a Cardarelli a Pessoa) impreziosita dai commenti del suo compilatore, il monaco della Comunità di Bose Sabino Chialà. Che denuncia un interesse non scientifico per il viaggio, del tutto personale, ma produce unopera assai scientifica (il viaggio sezionato in tutti i suoi aspetti) e universale, visto che la passione che lo infiamma, è il requisito per accedere alla dimensione assoluta.
E cè in Chialà un amore tale per il viaggio (e per le parole intorno a esso) che si comunica al lettore un invito a percorrere insieme, da buoni compagni di strada, tutte le dimensioni dellandare, del posare lo sguardo oltre il conosciuto, del raggiungere camminando. Del resto siamo avvisati dalla nostra stessa evoluzione: luomo nasce nomade e sempre propenso a partire, per cercare il cibo, per commerciare e far guerra, per scoprire nuove terre oltre le montagne e i mari o al di là della mente, dentro se stesso. Le tre grandi religioni monoteistiche sono incentrate sul viaggio: se il popolo di Israele viene «fatto uscire» dallEgitto, i primi cristiani erano noti come «quelli della via», mentre lislam nasce dalla migrazione di Maometto verso Medina.
E quindi il tema del pellegrinaggio, una dimensione del viaggio che tende alla scoperta del sacro in se stessi, alla divinizzazione del viaggiatore che si fonde con un luogo che trasuda fede e mito. E un pellegrinaggio è tale se, come ricorda Raimon Panikkar, «non sai se torni vivo». Tale dovrebbe essere sempre la dimensione autentica del viaggio, un andare che contiene, nemmeno troppo celato, un rischio mortale. Partire e accettare di farsi trasfigurare dallo spazio, dal tempo che si espande, disposti a imbattersi nel diverso, nellaltro, che può rivelarsi ostile.
Ma che ne è dunque del viaggio se la partenza è sterilizzata dal low-cost, se poi si vive ibernati dallaria condizionata nei villaggi turistici o nei grandi alberghi-roccaforte dove laltro è al massimo un cameriere? Dovremmo tornare a viaggiare per ricevere «occhi nuovi» e sentire «il cuore dilatato», ci ricorda Chialà.
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