Il dolore e la memoria nel segno di Zoran Music

La vicenda artistica di Zoran Music (1909-2005) vale un’attenzione particolare per la straordinaria qualità pittorica delle sue opere che hanno mantenuto in oltre cinquant’anni di storia una compattezza ferrea sia nell’ispirazione sia nell’evoluzione delle soluzioni stilistiche. Nato a Gorizia, quando ancora la città era austro-ungarica, cominciò gli studi in Austria e li proseguì all’Accademia di Belle Arti a Zagabria.
Quella di Music è una pittura di paesaggio rarefatta e introspettiva, onirica e struggente nei temi che si sono succeduti negli anni, i cavallini, le donne chinate, i soggetti vegetali, le vedute di Venezia, i ricordi dei campi di sterminio, gli Autoritratti, gli Ateliers. Il suo lavoro, come in Cézanne, come in Morandi, procede per vasti cicli nei quali l’artista concentra il suo pensiero e la sua memoria. I Paesaggi Senesi dei primi anni Cinquanta lasciano una traccia incancellabile nella pittura del secondo Novecento, ampiamente sottovalutati nella reale portata del loro messaggio pittorico. Il paesaggio di Music non è strettamente naturalistico, né completamente astratto: si assiste ad una sorta di sottrazione che impoverisce e scarnifica progressivamente il soggetto fino al raggiungimento della sua essenza interiore, ricca di una dolorosa considerazione del mondo. È una discesa nella profondità delle cose che consente all’artista di scegliere dominanti terrose stratificate una sull’altra.
Queste opere creano risonanze intime, interiorizzate da un’attenzione acuta, in cui anche il minimo segno contribuisce alla realizzazione della sensazione complessiva. Sempre dolorosa al punto da velarsi, occultarsi, rendersi opaca quasi per difendersi dai morsi di una realtà crudele. I racconti delle Terre Dalmate sono dominati dal grigiore delle masse sassose, dalla figurazione del vento che solca l’opera. Vento e Sole, Paesaggio sgretolato sono momenti che sospendono il fiato, arrestano il tempo. Nel 1960 giunge il capolavoro di Paesaggio vuoto, in cui tutto, anche i suoni, vengono spogliati della loro natura. Ne rimane l’essenza, l’ombra.
Per Music disegnare significa naturalmente affrontare questo corpo a corpo diretto con la realtà in modo ancora più drammatico. La carta è la pelle dell’opera, la più sensibile, la più suscettibile. A due anni dalla scomparsa dall’artista sloveno la cui vita fu segnata dai cinque mesi d’internamento a Dachau, una mostra, aperta a cura di Marilena Pasquali nella rocca medievale di Dozza Imolese (Bo) fino al 26 agosto, ne rievoca il sommo carattere di disegnatore, raccogliendo ottantacinque opere su carta, tra acquerelli, disegni colorati, olii su carta. La rassegna presenta due rarissimi fogli della serie realizzata a Dachau, quando l’artista quarantenne confessava di venir colto da una specie di irrefrenabile frenesia di ritrarre quel che vedeva. Questi soggetti erano destinati a tornare e ritornare, fino alla serie di Noi non siamo gli ultimi degli anni Settanta, di cui la mostra raduna diversi fogli. Dopo gli ocra, i gialli, quelle colline tonde come dune, i neri speroni umbri, le ossessioni della morte e dei suoi volti ritornarono, concentrati e contratti.

«Come in trance, mi attacco morbosamente a questi fogli di carta, accecato dall’allucinante morbosità di questi campi di cadaveri \ irresistibile necessità, per non farmi sfuggire questa grandiosa e tragica bellezza». Una dichiarazione stupefacente, una resa della vita all’arte, che sola può dare un senso a quel che di più malvagio possa fare l’uomo.

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