Dopo il dolore esplode la rabbia «Noi soldati usati dai pacifisti»

Monta la protesta dei militari italiani per le scelte del governo: «Dove erano quando D’Alema ci mandava a bombardare in Kosovo senza l’autorizzazione dell’Onu?»

Mario Sechi

da Roma

Dolore. Delusione. Rabbia. Il barometro delle Forze Armate segna tempesta e se chiedete in giro com’è il morale della truppa, raccoglierete prima le solite frasi ufficiali di circostanza, poi vedrete un inconsolabile scuotersi del capo, sentirete un parlare fitto fitto e infine farete fatica a fermare un fiume in piena, inarrestabile.
Il mestiere delle armi è quello più difficile e in queste ore, dal soldato semplice all’ufficiale, sembra esserlo ancora di più. «Ho letto i giornali, bene, siamo di nuovo tutti mercenari. Contiamo i morti e mi chiedo dove sia il rispetto per i nostri caduti e per quelli che ancora sono vivi e stanno in Irak», è quasi un urlo strozzato in gola, la voce di un ufficiale delle Forze Armate che ha trascorso mesi in Irak, ha perso gli amici, ma non la memoria di quei giovani strappati alla vita da un camion bomba. «Quello che sta accadendo non aiuta i nostri soldati in missione. Dov’erano i signori pacifisti quando nel 1996 siamo andati in Bosnia? Dov’erano quando ci hanno mandato su un teatro dove si usavano proiettili all’uranio? Dov’erano quando D’Alema ci mandava a bombardare il Kosovo senza l’autorizzazione dell’Onu?».
È uno sfogo talmente forte che sembra di veder le stellette andare in polvere. «Il rispetto, la solidarietà, la vicinanza della nazione sono fondamentali per andare avanti. Serve il sostegno morale, ma quando sei vivo, non quando sei morto. Mi sembra di assistere a una fiera di coccodrilli. Si mangiano i figli e poi vanno ai funerali a piangere». A sinistra dicono che siete in guerra... «Ma agli italiani qualcuno ha spiegato che cosa è il terrorismo e che cosa è la guerra? C’è una bella differenza. Gli avvisi di potenziali attentati li avevamo anche in Kosovo e in Bosnia. Però Kosovo e Bosnia non erano guerra. Sono strabiliato». Dicono che i soldati vanno in missione per soldi, per guadagnare di più.... «Non sanno niente della Brigata Sassari, dell’orgoglio. Quelle quattro lire valgano il rischio. Se partecipo all’operazione Domino guadagno più o meno lo stesso. Qui tutti si sono scordati che in Italia ci sono 10 mila obiettivi militari controllati dall’operazione Domino». Dicono che è meglio una missione tutta dell’Onu... «In Kosovo c’è una missione Onu: hanno fatto le elezioni municipali dopo tre anni e mezzo. Il primo corpo di polizia kosovaro è stato varato dopo due anni. Questa è la gestione Onu. Dopo sei mesi a Nassirya aveva già duemila poliziotti e i primi battaglioni dell’Esercito». Parla un uomo esperto, ha incontrato sceicchi in Irak, gente che sapeva tutto dell’Italia e che monitora il tragico dibattito sul ritiro: «Sanno tutto. E ora a Nassirya la gente nelle strade grida che dobbiamo andarcene dall’Irak. Prima non accadeva...».
La Difesa è uno strumento della politica, ma se la politica è confusa e contraddittoria, anche gli eserciti finiscono nel caos. Esemplare quanto accaduto al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Filiberto Cecchi. Nel pieno del dibattito sul futuro della missione Antica Babilonia e sulla presenza di una missione civile, Cecchi spiega: «È necessaria la presenza di 800 militari per garantire la sicurezza». Su di lui si abbattono prima i tuoni di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione che in un corsivo al vetriolo chiede il silenziatore per Cecchi, e poi i fulmini del capo di Stato Maggiore della Difesa, Giampaolo Di Paola che lo invita, diciamo così, ad essere più discreto.
Si dirà che ci sono normali differenze di vedute, ma il fatto è che da tempo nelle Forze Armate gli alti ufficiali sono ridotti al silenzio. Esprimono messaggi di cordoglio per i caduti, appuntano medaglie sul petto delle vedove, ma sulle missioni tacciono, sul rebuilding dell’Irak e dell’Afghanistan è sceso un velo. E forse è anche per questo che la voglia di parlare è tanta, che le parole diventano macigni. «C’è un nuovo governo, all’inizio c’è un assestamento, ma ora assistiamo quasi passivamente, indignati, a quello che sta succedendo. Siamo protagonisti involontari di una situazione scandalosa» racconta un altro ufficiale delle Forze Armate. «L’episodio del fratello di Pibiri è sintomatico: ha detto a Diliberto quello che tutti noi pensiamo. La sensazione di disagio è aumentata dal fatto che il distacco che avvertiamo da parte di certa politica, è acuito dalla partecipazione di alcuni esponenti dei vertici militari a questo disegno».
Parole dure... «Siamo di fronte a una forma di silenzio, all’allineamento totale su tutti i punti. Nessuno alzerà la manina per dire che mancano i soldi». La confusione sul ritiro è totale e si capisce da queste considerazioni: «L'atto finale dunque è che ce ne andiamo: ma non si capisce se è un ritiro, una ritirata o una fuga. E non c'è niente di ordinato, anzi. Il ministro resta sulle sue e non si vuole sbilanciare, Diliberto e Cento dicono ce ne andiamo via domani e non capiscono che ci sono dei tempi tecnici, Zapatero ci ha messo dei mesi...». E il timore dei militari è che il ritiro scomposto sia un boomerang. «Questo coro di voci, questo disaccordo totale arriva fino in Irak. I terroristi sono equipaggiati, finanziati, ti controllano, hanno anch'essi la loro intelligence. E se vedono incertezza, cercano di convincerti con i loro mezzi». Prodi l’altro ieri ha negato che vi sia un disegno contro gli italiani, ma nelle caserme e nelle basi militari nessuno ci crede: «Quella era una strada obbligata e una bomba non scoppia lì per caso. Una situazione di totale incertezza come questa aiuta i terroristi. Chi è malintenzionato è pronto a dare la spallata».


Carl von Clausewitz diceva che ci sono due tipi di coraggio: il primo è il coraggio di fronte al pericolo mortale; il secondo l’essere disposti, nelle decisioni di comando, ad accettare la responsabilità personale. Il primo coraggio è dei soldati. E i nostri ne hanno dato prova, il secondo è della catena di comando, fino all’ultimo anello: il governo.

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