Domus, la rivista che divenne un’opera d’arte

Lisa Ponti: «Per mio padre era un modo di costruire il futuro». La redazione-laboratorio di via Dezza a Milano e l’amicizia «litigiosa» con l’editore Mazzocchi

Lisa Licitra Ponti, figlia di Gio Ponti, è un po’ la memoria storica di Domus, dove ha lavorato fin dal 1948. Dal padre, poi, ha sentito i ricordi diretti della nascita della rivista (1928), quando nessuno immaginava che sarebbe diventata uno dei periodici d’architettura più importanti del secolo. E appunto di qui inizia la nostra conversazione.
Lisa Ponti, com’è nata Domus?
«Gio Ponti ha sempre detto che è nata come “improvvisazione” milanese. È nata dall’incontro di due personalità diverse e, ognuna nel suo campo, geniale: Gio Ponti e Gianni Mazzocchi, che della rivista era l’editore».
Chi ha avuto l’idea del nome?
«Non è stato mio padre. Il nome era stato scelto da un sacerdote, che voleva fondare una rivista per richiamare i giovani ai valori della famiglia. Il suo progetto non si realizzò, ma quel nome a mio padre piacque subito. Intanto era un nome latino, classico, e quelli erano anni (siamo nel 1928) in cui in tutta Europa si tornava a guardare alla grande tradizione classica, sentendola come parte viva della modernità. Poi significava “casa”: e la casa, diceva Ponti, è l’origine dell’architettura e dell’arte».
Ci sono stati dei contrasti tra Ponti e Mazzocchi?
«Io ho sempre parlato di loro come di due duellanti che però non sapevano stare lontani l’uno dall’altro. Mazzocchi ha saputo dare una dimensione industriale a Domus anche come diffusione. La rivista, già nei primi anni Trenta, arrivava in America, e non solo del Nord: era distribuita perfino nella Terra del Fuoco. Ponti invece lavorava artigianalmente, da artista, improvvisando, spesso arrivando in ritardo sulle date di consegna».
Erano diversità, le loro, che si compensavano?
«Sì, finivano per diventare complementari. Loro due, poi, dicevano scherzando: abbiamo lo stesso nome (si chiamavano tutti e due Giovanni), siamo nati lo stesso giorno (era vero, anche se Mazzocchi aveva dieci anni di meno), dunque abbiamo per forza qualcosa in comune».
Avevano entrambi molto ottimismo...
«Certamente. Ponti fondava tutti i suoi progetti sulla speranza. Diceva che dobbiamo costruire il futuro, senza arrenderci di fronte alle difficoltà. E amava anche dire: “La felicità è un sogno? Ma niente si è mai avverato che non fosse prima sognato”».
Qual era la differenza tra Domus e altre riviste del settore, come per esempio Casabella?
«Domus univa agli articoli di architettura quelli d’arte e anche di costume. Era una rivista più variegata, che si occupava tendenzialmente di tutte le arti».
Lei quando ha iniziato a lavorarci?
«Nel 1948, l’anno potremmo dire di rinascita della rivista. Dal 1941 al 1947, infatti, Ponti si era staccato da Mazzocchi, e aveva fondato un altro periodico, Stile. Poi i contrasti si erano appianati, e tutto era ricominciato».
Qual era la nuova sede della rivista?
«Era in via Dezza 49, nello studio di Gio Ponti: un enorme capannone, che prima era stato un garage per camion. Era talmente grande che ci si poteva entrare con la Lambretta o la Vespa e parcheggiare tra i tavoli da disegno. Ponti concepiva il suo studio come un laboratorio artigianale, non come un luogo progettuale».
Cosa ricorda maggiormente di quel periodo?
«L’entusiasmo, il rapporto vivacissimo con gli artisti che collaboravano alla rivista, spesso disegnando loro le copertine. Erano gli anni in cui Lucio Fontana diceva che la realtà ha una dimensione cosmica e creava i suoi visionari ambienti al neon. C’erano intensi contatti con l’America».
In conclusione, come definirebbe la rivista?
Domus è stata un viaggio.

In tempi in cui non ci si muoveva come oggi, si viaggiava attraverso le sue pagine. Ma è stata anche molto altro. Ponti diceva sempre: “Nel cuore di coloro che la fanno, Domus è una rivista d’arte che sogna di essere un’opera d’arte”».

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