Doninelli: la mia mano è come un rock

Dai Pink Floyd a Beethoven: quando il teatro si fa musica

Igor Principe

«Se ascolto l'attacco di Shine on you crazy diamond, dei Pink Floyd, mi viene in mente la Quinta di Beethoven. Quattro note in entrambi i casi: per la Quinta, si è detto che è il destino che bussa alla tua porta. Sui Pink Floyd aggiungo: è il rintocco di una campana che ti sveglia».
Sembrerà bizzarro, ma Luca Doninelli sta parlando di teatro. Di più: del teatro nato da un suo romanzo, in scena al teatro Grassi fino al 5 febbraio. Lo spettacolo si intitola La mano; la regia è di Marco Martinelli e gli interpreti sono Ermanna Montanari e Roberto Magnani. La ragione per cui l'autore cita David Gilmour e la sua chitarra elettrica, che nel disco Wish you were here (1975) disegnò i suoni di quel celeberrimo attacco, è presto detta: il suo testo è intriso di rock.
«Nel 2000 ho scritto un libro, pubblicato l'anno successivo, in cui ho voluto raccontare l'eccesso che anima il rock - racconta -. È una musica che parla per linguaggi assoluti. Per capirci: se il jazz va bene per raccontare cosa hai fatto oggi, per immaginare un momento di vita vissuta tra le pareti della cucina, il rock no. Per sua natura, è estremo. Ne so qualcosa, perché da giovane sentivo due vocazioni. Una si è avverata, e mi ha fatto diventare scrittore. L'altra è rimasta il sogno di diventare un chitarrista rock».
Sogno che si è in parte trasposto nelle pagine de La mano. Lo spunto da cui tutto muove è il suicidio di Jerry "Geremia" Olsen, chitarrista rock indotto al gesto estremo da una crisi artistica che ci mette un amen a diventare personale. «Siamo agli inizi degli anni Settanta, quando cominciano ad affacciarsi sulla scena rock i chitarristi tutta tecnica e velocità - dice Doninelli -. Fino a quel momento Olsen è considerato il più grande. Con l'affermarsi dei tecnici perde posizioni e finisce "solo" tra i migliori venti. Si deprime. Poi su un giornale legge di una signora che si è fatta trapiantare nel cervello un microchip per combattere la sordità, e si illumina: mi faccio trapiantare una mano artificiale, dice, e divento il più veloce di tutti».
Avvitato in una spirale di follia, sbalzato tra medici realisti e altri senza scrupoli, Olsen entra in crisi e si congeda dal mondo. Lasciando una sorella, Isis, che ne abbraccia il culto, votandosi a una monacalità innervata di altrettanta follia. «Avevo letto da qualche parte di una ragazza che si era fatta suora da sola - prosegue l'autore -, e a lei mi sono ispirato per Isis. Si veste da monaca, di giorno vive con le consorelle, di notte sta in casa e celebra il culto del fratello. La ossessiona l'idea di dover salvarlo».
Sul palco, la protagonista è proprio Isis (Montanari) voce di un racconto frammentato in segmenti di lucidità e pazzia, che si fanno persona nella maschera di Topolino (Magnani), presenza silenziosa e inquietante in azione alle spalle di lei. Della quale Doninelli dice: «È un Carmelo Bene donna». E prosegue: «Un portento. Così come un portento sono le luci curate da Vincent Longuemare, capace di evocare un amplificatore per chitarra e la vetrata di una chiesa dallo stesso elemento scenografico».
I toni con cui l'autore parla dello spettacolo sono gli stessi con cui dialoga di rock. Accesi ed entusiastici. «Se ne parlo così bene è perché non l'ho scritto io». Prego? «È così. Io sono l'autore del romanzo, non del testo. In quest'ultimo non rimangono che una decina di pagine del mio romanzo. È Martinelli che ne ha colto tutto il senso, e ha creato uno spettacolo migliore di quanto io abbia dato alle stampe».
Di fronte all'esercito di scrittori che denigrano ogni trasposizione teatrale o cinematografica dei loro lavori con l'accusa, al regista di turno, di averne tradito lo spirito originario, Doninelli appare come una mosca bianca. La cosa non lo tocca. «È la verità. Se proprio devo fare un appunto, direi che La mano, essendo un melologo, è tagliato per i teatri lirici.

Mi ricorda un po' l'Ode a Napoleone di Arnold Schönberg. Ma è un rilievo da niente. Quel che conta è altro: io non sapevo cosa avessi scritto; poi ho visto lo spettacolo e ho capito che la mia idea, più che un romanzo, era destinata a diventare teatro».

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