
Assolti perché «il fatto non sussiste». I medici dell'Humanitas di Rozzano accusati dell'omicidio colposo di una donna di 40 anni, morta dopo una banale operazione, un raschiamento dell'utero seguito a un aborto spontaneo, sono stati scagionati con formula piena.
La quinta Corte d'appello ieri ha ribaltato la decisione del tribunale, la undicesima sezione penale, che aveva inflitto nove mesi di reclusione a entrambi. Bisognerà aspettare 90 giorni per leggere le motivazioni della sentenza, ma sembra che i giudici abbiano ritenuto che i medici non avrebbero potuto salvarla neppure intervenendo prima con una isterectomia d'urgenza, dopo la complicazione (rara, ma possibile) avvenuta in un intervento come questo, cioè la perforazione dell'utero. La Procura generale aveva chiesto la conferma della condanna per il primario e l'assoluzione per l'altra ginecologa. Una terza dottoressa aveva già patteggiato.
L'episodio risale al 12 aprile 2018. Sono le 14 quando Emanuela Postacchini, impiegata della Deutsche Bank, madre di una bambina che all'epoca aveva 4 anni, entra in sala operatoria. Dovrebbe uscire dopo pochi minuti, riabbracciare il marito, ma resta sotto i ferri molto di più. I medici dichiarano il suo decesso, avvenuto per dissanguamento dovuto a una emorragia interna, solo in serata. Secondo la consulenza tecnica del pm Mauro Clerici, che aveva coordinato l'inchiesta, i medici avrebbero dovuto praticare immediatamente l'asportazione dell'utero. Lo avrebbero fatto troppo tardi, alle 15.20, perseverando invece in un comportamento «attendista» e «assecondando gli eventi che evolvevano in uno choc emorragico non più gestibile, e alle 14,40 nell'arresto delle funzioni cardiocircolatorie e successivamente nella morte della signora». Nell'inchiesta è stato ricostruito che il primario arrivò in sala operatoria intorno alle 14. Gli anestesisti, come scritto anche nella cartella clinica della donna, avevano invitato l'équipe a eseguire immediatamente l'isterectomia. I ginecologi, invece, che volevano probabilmente salvarle l'utero, non praticarono subito l'intervento, eseguito solo dopo oltre un'ora. Nelle due ore seguite alla perforazione dell'utero le furono somministrati alcuni farmaci che però non ebbero effetto sull'emorragia. Nonostante poi le trasfusioni di oltre 15-16 litri di sangue, la donna morì dissanguata. Antonio Cornacchia, marito della donna, assistito dagli avvocati Sergio Vitale e Antonio Ferrari nella costituzione di parte civile della figlia, in primo grado non aveva perso un'udienza.
«Sono stati anni difficili, è stato un processo molto aggressivo», le sue parole. Ancora: «Dal punto di vista personale non è stato semplice, certo si fa i conti con la situazione ma ho avuto la fortuna di avere nostra figlia. L'averla accudita e cresciuta mi ha aiutato ad andare avanti».
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