Siamo nella Cappella dei Magi all'interno di palazzo Medici Riccardi a Firenze. Sulla parete Est c'è un corteo di cavalieri. Ad aprirlo Lorenzo de' Medici, seguito dal padre Piero e dal nonno Giovanni. La potenza e l'eleganza della famiglia che domina Firenze è espressa dallo splendore delle vesti, dalla postura. Ma soprattutto dalla magnificenza delle loro cavalcature. Ma anche la parete Sud e la parete Ovest sono un tripudio di possenti palafreni da parata. Nel Rinascimento la guerra è ancora faccenda di cavalieri, anche se sempre meno, e di certo nulla segna lo status di un nobile quanto il suo cavallo.
Nell'Italia delle signorie tutto ciò che conta davvero va al galoppo, all'ambio, passa dalla forza espressa dalle lance, piccole unità di combattimento che dipendono dalle proprie monte (divise tra cavalli da battaglia e da trasporto). Le potenze che si contendono la penisola sintonizzano la propria politica sulla regola machiavellica che al principe conviene imbestiarsi, essere più che umano, essere «golpe e leone».
Ma prima di tutto il principe è dipendente da altri animali, i destrieri dei suoi cavalieri e i ronzini dei suoi messaggeri, governa una horse-powered society. Per rendersene conto niente di meglio del dottissimo saggio appena pubblicato da Fabrizio Ansani: Il cavallo da guerra e lo Stato del Rinascimento (Il Mulino, pagg. 504, euro 38). Ansani che insegna ad Exeter ed è un grande esperto di storia economica e militare dell'Età moderna, porta il lettore in un viaggio nel tempo molto diverso da quello che potrebbero fargli fare altri storici.
Si parte dalle fiere, ai piedi delle Alpi, dove giungono i mercanti svizzeri e tedeschi portando con sé centinaia di monte. Si va dai cavalli da passeggio, i ronzini (che non per forza bisogna immaginare come brutte bestie macilente), ai cavalli da guerra, i più ambiti perché in grado di portare un guerriero in assetto da combattimento. Ma dai pascoli comunali di Arona, Como o Bellinzona, dove stazionavano i mercanti, la briglia delle cavalcature militari arrivava sino alle corti. Come quella ducale lombarda, dove assicurarsi tutti i cavalli da guerra necessari era la costosa priorità.
E così attorno al corsiero, l'erede del destriero medievale, si scatenavano gli interessi della politica. E nel tentativo di approvvigionarsi, i vari signori d'Italia si dovevano destreggiare fra la tendenza al controllo statale dei cavalli e il tentativo di favorire il libero mercato per motivi economici e di pronta consegna in caso di necessità.
Senza parlare di tutte le truffe portate avanti da armigeri e venditori nel tentativo di farsi fornire cavalli gratis o rifilare alle stalle ducali bestie scalcagnate.
Ma non solo grandi affari e guerre crudeli a dorso di cavallo. Anche la moda cavalcava. Il Rinascimento fu tutto un discutere dei mantelli dei cavalli da parata, delle forme degli animali più armoniosi. Con i nobili che facevano i matti nel tentativo di procurarsi, a suon di ducati e fiorini, il cavallo preferito. Francesco Sforza voleva «ronzini liardi» (grigi), Lorenzo il Magnifico pensava che un cavallo «tutto morello» avesse un aspetto «grato agli occhi». Ludovico III Gonzaga, invece, si accontentava di cavalli che non avessero un «tristo mantello».
Ma c'era dietro anche una complessa teoria dei colori e delle forme, a metà fra la tradizione magica e una certa idea che dal colore si potesse, lombrosianamente ante litteram, stabilire in anticipo il carattere di un animale.
Il termine «balzano», nel senso di strambo o bizzarro, deriva proprio dalle balze, la coloritura bianca che certi cavalli presentano sulle zampe. A seconda del tipo e del numero di balze si poteva pensare bene o male dell'equino. Per fortuna c'erano anche esperti che, già nel Rinascimento, avevano un certo buon senso come l'ippiatra Piero Andrea: «Ho visto cavalli haver mali signali et essere migliori dil mondo et altri haver boni signali et essere li peggiori del mondo».
Per non parlare di razze ed incroci, in un mondo dove ogni cosa si sposta trainata da quadrupedi il cavallo spazia appunto dal trattore all'equivalente di una Ferrari (che pur il suo cavallino rampante lo mantiene).
Ansani insomma svela al lettore una società che si muove ad un ritmo diverso e dove il cavallo è compagno, mezzo e simbolo. E a dimostrarlo è anche il suo spazio nell'arte. Poi col tempo ci saremmo sempre più spostati in un mondo fatto di vele e cannoni, come ci ha spiegato un grande storico come Carlo M. Cipolla.
Il cavallo avrebbe comunque resistito a lungo, ma il Rinascimento è stato davvero l'epoca del suo grande galoppo, forse più della frontiera americana, anche se ci si pensa molto di meno.Ansani pone rimedio disegnando un affresco grandioso e pieno di eleganza, come la corsa di un veloce ginetto, il cavallo da ricognizione per eccellenza.
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