Gheddafi può rimanere in Libia, a patto che si chiami veramente fuori dalla scena politica. In sintesi è questa la retromarcia, per certi versi clamorosa, del ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, sulla guerra in Libia. Ci sono voluti quattro mesi di bombardamenti, un paese ricco di petrolio spaccato in due e una fastidiosa sensazione di stallo militare, o ancora peggio pantano, in cui ci siamo infilati per far scoprire alla Grandeur l’acqua calda.
Riferendosi a Muammar Gheddafi, che la Nato non riesce a schiodare da Tripoli, il capo della diplomazia francese ha affermato in un’intervista: «Una delle ipotesi a cui si pensa è che rimanga in Libia, ma a condizione che si distanzi con chiarezza dalla vita politica». All’inizio il colonnello avrebbe dovuto finire alla sbarra per crimini di guerra, poi hanno tentato di incenerirlo con un missile, alla fine speravano in un esilio ed ora pure i francesi, che hanno dato fuoco alle polveri della crisi libica, scendono a più miti consigli. Un diplomatico che segue da vicino la faccenda sentenzia: «Siamo finalmente di fronte a una mossa di saggio realismo».
Nell'intervista al canale tv Lci il ministro degli Esteri Juppé sostiene pure che la spada di Damocle del mandato di cattura internazionale per crimini di guerra, pendente sulla testa di Gheddafi e di suo figlio Seif al Islam «al momento non viene discussa». In pratica facciamo finta di niente e cerchiamo una via d'uscita onorevole per tutti. L'obiettivo è una tregua, il più definitiva possibile, ma «il cessate il fuoco - spiega Juppé - dipenderà dalla reale e formale intenzione di Gheddafi di abbandonare il suo ruolo politico e militare».
Al colonnello, per ora, basta sopravvivere e non perdere la faccia. Non sarà facile far digerire ai ribelli una soluzione del genere, ma almeno bisogna cominciare con un negoziato diretto e concreto fra Bengasi, roccaforte della rivolta e Tripoli, dove comanda ancora Gheddafi.
Il cessate il fuoco, secondo fonti de Il Giornale, dovrà venir garantito da una forza di interposizione militare internazionale, o quantomeno da osservatori probabilmente sotto il cappello dell’Unione africana. L’Italia spinge sulla strada del negoziato Bengasi-Tripoli, cessate il fuoco e controllo internazionale. Il rischio è che la Libia rimanga divisa in due, ma si ipotizza pure uno stato federale fra Cirenaica, Tripolitania e zona berbera.
Il vero obiettivo saranno libere elezioni e una Libia democratica, dove il colonnello potrà anche stare in disparte, ma i suoi sostenitori non si faranno certo fregare rimanendo fuori dal giro.
La Russia spinge apertamente per la fine dei bombardamenti e la via negoziale. Ieri a Mosca è stato ricevuto il ministro degli Esteri di Tripoli, Abdelati al Obeidi, che ha ribadito come «la questione della partenza di Gheddafi non faccia parte dei negoziati. Non ha intenzione di lasciare il paese».
L’esilio «sicuro», invece, gli è stato notificato dagli americani che hanno incontrato sabato scorso in Tunisia, il segretario del colonnello e uomo di fiducia Bashir Saleh.
Nel frattempo i combattimenti continuano soprattutto attorno a Brega, il terminal petrolifero strategico lungo la strada costiera da Sirte a Bengasi.
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