E Beckett mise in scena lo sfacelo della materia

Ritornano in libreria gli scritti brevi del grande autore irlandese: pagine dure in cui la realtà diventa ossessione sorda ed estenuante

Noi siamo corpi, a differenza degli altri animali con una coscienza dolorosa del nostro essere inestricabilmente legati al corpo, e per quanto ci si illuda non c’è rosa senza spine, non c’è mente senza corpo, e anche questa bella storia delle rose andrebbe sfatata: se son rose sfioriranno.
Il peggior modo di leggere i testi di Samuel Beckett è fraintenderli addomesticandoli, e la cultura è piena di fiorai, un consolatorio giardinetto di letterati commentato da letterati e prodotto da letterati, e i letterati, oltre a essere morti, sono di una noia mortale, quando meno te lo aspetti ti tirano fuori Kant, Hegel o Platone, l’anima o lo spirito, a me basta citare il nervo laringeo ricorrente per aggirare ogni umanesimo felice. Così non ho mai letto Beckett al di fuori di questa tragica consapevolezza che lo unisce, ancor più che a Joyce e Kafka, alla parte terminale della Recherche, alla quale Beckett dedicò un piccolo essenziale saggio, uno dei rari scritti su Proust non addomesticati.
Se la letteratura è chiamata alla verità e non all’intrattenimento favolistico, Beckett rappresenta la cancellazione della metafisica nella fisica, e in questo è compatibile con la scienza, con la biologia, con l’evoluzionismo, con la verità più scomoda, con la lunga storia che ci ha condotto dai procarioti al primo pensiero umano, alla prima patetica illusione di essere altro e avere un destino diverso. Il senso più profondo delle sue pièces teatrali, della Trilogia, dei racconti che l’Einaudi ha appena ripubblicato (Racconti e prose brevi a cura di Paolo Bertinetti, pagg. 278, euro 21), è proprio questa lancinante compenetrazione tra mente e materia. La materia di cui siamo fatti non solo noi umani ma l’intero universo, le cose, qualsiasi oggetto. La materia attraverso la quale l’io viene intaccato, disgregato, annientato, stuprato, aggredito dalla brutale indifferenza del mondo in cui nasce e muore. Beckett è per molti insopportabile proprio per questo suo significare un punto di non ritorno, come già Proust. Fa comodo neutralizzarli entrambi ingabbiandoli l’uno nel modernismo e l’altro nella madeleine, le etichette più usate dai fiorai.
I racconti di Beckett sono negazione di racconti perché si pongono il problema di cosa significhi raccontare. La voce narrante si incarna nelle cose, vi resta imbrigliata, gli oggetti aggrediscono il pensiero, ne diventano ossessione sorda e parlante. E Beckett è costretto a non poter tacere, a dire l’inadeguatezza, l’impossibilità di narrare le cose.
È quanto accade anche nell’arte del Novecento, con la rivoluzione del readymade, l’oggetto che cancella il soggetto e lo stesso valore di arte. Si può raccontare davvero solo la fine, una lunga estenuante fine, e l’orrore di sentirsi vivi e pensare la vita. Dove una banale passeggiata può prolungarsi per pagine e pagine, non c’è più bisogno di grandi trame per inscenare un dramma: "Mi misi in cammino. Che portamento. Rigidezza delle membra inferiori, come se la natura mi avesse negato le ginocchia, straordinaria divaricazione dei piedi dalle due parti dell'asse di marcia". L’unica soluzione sarebbe il non pensiero: "Bisogna camminare senza pensare a quello che si fa, come si sospira, e io quando camminavo senza pensare a quel che facevo camminavo come ho detto, e quando cominciavo a controllarmi facevo qualche passo di buona fattura e poi cadevo". Una delle tante cadute emblematiche in Beckett, la caduta di Molloy dalle stampelle ridotto a un uomo strisciante nel bosco, il progressivo sprofondamento di Winnie che finge giorni felici perfino quando è interrata fino alla testa, l’immobilità di Malone, la disgregazione assoluta dell’Innominabile, che inizia con un: "e adesso dove? Quando? Chi? Senza chiedermelo. Senza pensarlo" e termina con il famoso: "bisogna continuare, non posso continuare, e io continuo" spesso citato a sproposito, come se fosse "domani è un altro giorno" di Rossella O’Hara e non un muro contro cui sbattere la testa.
In Beckett perfino i vestiti, i vestiti di cui vestiamo i nostri corpi, un paio di pantaloni, una giacca, un cappello, si fanno pesanti, ingombranti, problematici, metonimie dell’assurdo. Tra infiniti tic da ripetere all’infinito, contare le monete in una tasca, contare i gradini dalla strada alla porta di casa, ogni gesto è un dramma. Non serve neppure sdraiarsi su un letto per riposare senza sentirsi violentati dalla materia, consustanziati all’inanimato: "I lunghi pomeriggi assieme, aspettando l’ora di andare a letto. Sentivo la sua vita di legno invadermi fino a diventare io stesso un vecchio pezzo di legno. C'era perfino un buco per la mia cisti". Il corpo è l’oggetto da cui dipendiamo ("bisogna muoversi, ci vuole un corpo"), dentro cui finiremo stritolati, dentro cui iniziamo l’agonia fin dal primo vagito e l’agonia della coscienza: "Dovrei disinteressarmente, del corpo, della testa, lasciare che si arrangino, lasciare che smettano, non posso, bisognerebbe che io smettessi". Viviamo in "un sacco di membra e di organi, di che finire ancora una volta, di che resistere, un attimo, lo chiamerò vivere, dirò che sono io, mi metterò in piedi, non penserò più, sarà troppo occupato, a stare in piedi, a tenermi in piedi, a cambiare posto, a tener duro, ad arrivare al domani".
Come nel teatro beckettiano dell’uomo resterà solo una bocca delirante (Non io) inghiottita nel buio, nei racconti più estremi restano solo corpi imprigionati in spazi descritti scientificamente: ne Lo spopolatore i corpi vivi, rinchiusi in uno cilindro di gomma di cinquanta metri di circonferenza e sedici di altezza, dove le mucose e i baci producono suoni indescrivibili, si muovono freneticamente divisi in "cercatori" e "sedentari", un formicaio sigillato in un barattolo, in una cieca darwiniana lotta per la sopravvivenza fino alla fine, all’ultimo cercatore, l’ultimo stacco sulla materia vincitrice, quando la temperatura di abbassa e "si stabilizza intorno allo zero" e resta solo il cilindro, quando "s’interrompe bruscamente lo stridio di insetto citato sopra donde un subitaneo silenzio più forte di tutti quei deboli aliti messi insieme". La vita, in Beckett, ha lo stesso finalismo che ha nella realtà biologica: non ha alcun senso, e per tale ragione è fuori dalla letteratura, fuori dalla rappresentazione, fuori dall’io, nuda messa in scena la tragedia di esserci e dover continuare a esserci finché ci siamo. "Le partenze, le storie, non sono per domani. E le voci, da qualunque posto vengano, sono bell’e morte".

Per questo si arriva a leggere che "uccidere un bambino è stroncare un disastro sul nascere", e al contempo, d’altra parte, non si può interrompere la farsa, ancora no, perché siamo formiche pensanti, perché "tutti sono genitori, ecco quel che toglie ogni speranza".

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