Col rifacimento psichedelico di Easy Life, cioè del Sorpasso di Dino Risi, ovvero con Easy Rider, Dennis Hopper non fece solo un film innovativo. Originò la New Hollywood, salvando anche ciò che restava dell’Old Hollywood. Girato nel 1967 da un regista trentenne con attori allora noti soprattutto alle loro famiglie (Peter Fonda, Jack Nicholson, Karen Black), Easy Rider divenne il simbolo di un’epoca grazie al Festival di Cannes del 1969, dove vinse il premio per l’opera prima.
Chi si chiede a che cosa servano i festival, ha qui la risposta, non tanto per il lato artistico, sempre opinabile, ma per quello economico, sempre concreto: con un cinema quasi in ginocchio per carenza di idee e concorrenza tv, il successo mondiale di Easy Rider mostrò che il futuro dell’industria non era nei Berretti verdi di e con John Wayne, ma nel cogliere che le abitudini (dire valori sarebbe eccessivo) erano cambiate.
Le carriere di tanti giovanotti cresciuti attorno a Roger Corman (Hopper, Fonda e Nicholson, ma anche - per esempio - Jonathan Demme e Joe Dante) presero il via da quella svolta. E anche quelle dei laureati in cinema all’Università della California, come Steven Spielberg e John Milius. L’intelligenza s’impose non perché colta, ma perché aveva dimostrato di costare poco e rendere molto, proprio come era accaduto dieci anni prima, in Francia, con la Nouvelle vague. Certo, con Lo squalo, già nel 1975 proprio Spielberg aveva indicato il retour à l’ordre, ma ormai nulla era più come prima e non solo nel cinema americano.
Ricordando Hopper per la sua morte, avvenuta ieri dopo lunga e crudele agonia, la critica ricorderà il lato trasgressivo del film: il primo dove i personaggi principali sono drogati, ma non commettono crimini, ne sono vittime. Ma la critica dimenticherà che Hopper, suo realizzatore e coprotagonista - l’ideatore era stato Peter Fonda -, aveva votato per i repubblicani, almeno fino alle guerre neocoloniali della presidenza di Bush II. Hopper era evidentemente più attento alla rappresentazione della realtà che alla realtà vera e propria...
Sposato e risposato, anche questo un modo per dissipare un’esistenza, Hopper ha chiuso la sua con una moglie che gli rimproverava di fumare marijuana davanti ai figli, come se lei, sposandolo, non avesse saputo con chi si metteva. Ogni spinello di Easy Rider era infatti rigorosamente vero, come lo era ogni rapporto intimo, sebbene Karen Black, invecchiando, lo negasse; perfino i deliri erano autentici e Peter Fonda - che in una scena nel cimitero di New Orleans invoca la madre che l’ha abbandonato, suicidandosi - me lo confermava ancora l’anno scorso, quando venne per il Busto Arsizio Film Festival.
Stranamente un premio industriale, non artistico, come l’Oscar, non andò a Hopper per Easy Rider. Lui fu solo «nominato» come comprimario. Eppure gran parte dei componenti dell’Academy stava tentando di imitargli il film, ottenendo per lo più il risultato inverso: costi alti, incassi bassi.
A dire che cosa resti di Easy Rider - montato da Hopper nei saltuari momenti di lucidità, lungo due anni che coincisero col massimo impegno militare nella prima sconfitta nella storia degli Stati Uniti - lo dice la colonna sonora, che tuttora echeggia spesso in tv in ogni servizio o pubblicità che voglia dare l’idea del viaggio. È stata una compilazione di tale successo che da allora riprendere note canzoni per una colonna sonora divenne più caro che farne scrivere una originale.
Come regista, Hopper non imbroccò più una nuova svolta.
Colors, per esempio, fu più il film di un repubblicano progressista (ne esistono tanti) e intelligente (ne esistono meno) che un’innovazione. Ma che cos’era il poliziotto maturo e misericordioso di Robert Duvall, rispetto al poliziotto giovane e incattivito di Sean Penn, se non l’alter ego di Hopper, rattristato che la realtà prevalesse sul cinema?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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