E Paulson si inginocchiò di fronte ai democratici

Non è stata ripresa dalle telecamere, ma l’immagine resterà scolpita nell’immaginario collettivo degli americani. Perché Henri Paulson è sì il ministro del Tesoro americano, ma fino a pochi mesi fa era presidente di Goldman Sachs e non è un mistero che in queste convulse giornate difenda oltre agli interessi del Paese anche quelli della casta dei banchieri e dei supermanager; quella che ha inventato il castello di carta e di debiti che sta crollando in questi giorni; quella che per anni è riuscita a incassare stipendi da decine di milioni di dollari e ad uscire con superbonus milionari dalle aziende portate al fallimento .
Giovedì sera durante la tempestosa riunione alla Casa Bianca tra le delegazioni dei parlamentari e il presidente Bush, a un certo i democratici si sono alzati annunciando l’intenzione di abbandonare la sala. Paulson li ha rincorsi, ha tentato di trattenerli per la giacca, poi si è genuflesso davanti alla presidentessa della Camera, Nancy Pelosi implorandola «di non far saltare» l’accordo. Lei dapprima l’ha messa sul ridere: «Non sapevo che fosse cattolico» e poi, seria in volto, ha aggiunto: «Non siamo noi a creare problemi». Paulson è rimasto in ginocchio e con l’aria affranta ha mormorato: «Lo so».
Già, la responsabilità è dei repubblicani. Non di tutti, ma di una minoranza agguerrita, che all’inizio della settimana si era ribellata, per la prima volta in otto anni, all’onnipotente vicepresidente Dick Cheney e che giovedì notte non si è fatta intimidire dalla solennità della Casa Bianca, irritando persino George Bush che a un certo punto è sbotttato: «Se non tirate fuori i soldi, va tutto a rotoli».
Un’America più che mai sottosopra: i democratici sono schierati con l’odiatissimo Bush, mentre molti liberisti gli rimproverano di voler ristatalizzare l’America e chiedono un ridimensionamento del ruolo del governo nel piano di salvataggio delle aziende in crisi.
La notte è servita, perlomeno, a placare gli animi. Ieri George Bush ha parlato per la seconda volta al Paese. Una dichiarazione breve, rassicurante: «Ci sono dissensi su alcuni aspetti del piano, ma tutti concordano che qualcosa vada fatto». Come dire: dovremo limare qui e là, ma alla fine ce la faremo. Anche la Pelosi si è detta ottimista e ha stabilito la scaletta: trattative per tutto il weekend e poi voto in aula lunedì o martedì. Persino i repubblicani sono sembrati più cauti e hanno sostituito un paio di membri della delegazione, lasciando a casa gli irriducibili. Un fine settimana comunque di paura, perché se domenica notte l’accordo non venisse raggiunto i mercati mondiali quasi certamente crollerebbero. E con loro l’economia e le finanze americane.
Tutto questo a meno di sei settimane dal 4 novembre. In mezzo alla crisi ci sono loro, John McCain e Barack Obama. A dir la verità più il primo del secondo, ma non sempre con successo. Il vecchio John in questi giorni fa notizia, ma non si distingue per linearità. Anzi, procede d’impulso, contraddicendosi, zigzagando. Cerca l’attenzione dei media, e spesso la ottiene, ma svelando un’impetuosità che molti elettori potrebbero giudicare non presidenziale, soprattutto in tempi come questi. Nei giorni scorsi ha cambiato giudizio sul salvataggio del gigante assicurativo Aig, prima lo ha criticato, poi lo ha esaltato, ma è il giallo del dibattito che rischia di danneggiarlo. Mercoledì notte ha annunciato la sospensione della campagna e ha chiesto a Obama di rinviare il primo confronto televisivo previsto per ieri notte. La ragione? Assurdo confrontarsi se prima non si risolve la «Pearl Harbour» finanziaria. Quindi si è precipitato a Washington, costringendo Obama a partecipare alla riunione congiunta con Bush. Flash, dichiarazioni alla stampa, piglio deciso. Ma non appena chiuse le porte, McCain, secondo diversi testimoni, si è estraniato. Mentre i suoi colleghi di partito demolivano il piano di Paulson, lui è rimasto in silenzio per quaranta minuti e quando ha preso la parola si è limitato a reiterare gli appelli al dialogo bipartisan, conditi da considerazioni generiche. Non ha dimostrato competenze economiche, non ha tentato di mediare, non ha esercitato il proprio carisma. E quando ha lasciato la sala nessuno ha capito se fosse disposto o no a votare il salvataggio. Insomma, non è riuscito a imbrigliare il dissenso interno e ieri si è ricreduto anche sul dibattito.

Sebbene ventiquattro ore prima avesse annunciato che non avrebbe lasciato Washington, ieri pomeriggio è volato all’università del Mississippi. Obama invece negli ultimi due giorni si è dimostrato forse un po’ insipido, ma calmo, coerente e improvvisamente fiducioso: ora può davvero allungare.

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