E se Kafka non fosse morto di tubercolosi...

Un libello di Roth a metà tra realtà e fantasia ipotizza una diversa fine per l'autore del «Processo». E arriva ad immaginare che lo scrittore sia stato il suo insegnante a scuola. Cambia la storia ma non il risultato: anche il finto professore morì solo e infelice

Kafka e Roth. Scrittori. Ebrei. Poco altro. Nulla lega - tra loro - Kafka e Roth. Se non un desiderio. Quello dello scrittore americano che immagina di aver avuto come insegnante lo scrittore cecoslovacco. O meglio, che l'autore del «Processo» non fosse mai morto in quel lontano 1924, l'ultimo felice della sua breve vita. Anzi. Si fosse trasferito a Newark dove il piccolo Roth era nato e viveva. E andava a scuola. Sembra quasi un atto d'amore «Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno. Ovvero guardando Kafka» (Einaudi, pp.40, euro 8) attualmente in libreria, testo di sconcertante ma affascinante approccio. Non già un saggio, non certo un romanzo, forse semplice narrativa d'invenzione, a metà strada tra l'ucronia e il semplice sogno.
Il testo è diviso in due parti, apparentemente scollegate tra loro. Non c'è soluzione di continuità. Kafka e le donne. Kafka e l'amore. Nella prima. Gli ultimi mesi felici. Milena. Dora. La serenità prima della fine. Prima della cessazione di tutto. Roth a scuola. Nella seconda. Le beffe degli amichetti verso quel bambino ebreo che invita il maestro ebreo a cena a casa. Ufficialmente per aiutare una persona sola, in realtà per tentare di combinare un matrimonio con la sorella zitella della madre. La liaison non va in porto, ma quell'insegnante, che tanto assomiglia a Franz Kafka, da vecchio porta nel cuore una famiglia che gli aveva regalato attimi di felicità.
La vita dei miseri - tuttavia - è un vocabolario cui manca una parola. Riscatto. Non c'è speranza di affrancarsi dalle sofferenze. E questo è il destino del professor Kafka, docente a Newark. Scampato all'Olocausto. Fuggito dall'Europa. Come migliaia di «cervelli» che in quegli anni abbandonarono tutto pur di aver salva la vita. Ma anche lui, lui Kafka sotto mentite spoglie, non è immortale. E l'ora fatale giunge anche per lui. Molti anni dopo aver finito le scuole il piccolo Roth, che ormai tanto piccolo non è più, scopre che il suo insegnante, dalla mole un po' appesantita e dall'alito pesante, che una sera mangiò a casa sua e avrebbe dovuto sposare la zia, ebbene il professor Kafka era morto. Se ne era andato in punta di piedi. E nessuno se n'era accorto. Non sarebbe stata una vita di gioie, la sua. Sua di Kafka, s'intende. Nemmeno nella fantasia di Roth, che forse non lo aveva resuscitato semplicemente perché mai lo aveva fatto morire. Ma andò diversamente. Come la vita di un ebreo semplice. A Newark. Solo in una moltitudine che ti ignora. Solo in un mondo che ignora un professore semplice, malato di solitudine. Sbeffeggiato dai suoi alunni. E rifiutato da una zitella. È legittimo chiedersi quale morte sia migliore.

Quella reale che fermò il cuore dello scrittore ucciso dalla tubercolosi nel giugno del '24. O quella inventata che stroncò un professore avanti con gli anni dopo una vita di solitudine. E forse la risposta non esiste. Né nelle parole di Roth. Né nella letteratura.

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