La colta, civile Germania ha pagato anche con un grave errore - di cultura e di civiltà - i suoi trascorsi nazisti. Fu quando, nel 1946, venne vietata la ristampa, su tutto il territorio nazionale, di Mein Kampf, ovvero «La mia battaglia», libro definito anche «la Bibbia di Hitler».
Scritto, per lo più in carcere, nel 1924, la prima parte fu stampata l’anno dopo, la seconda nel 1926: fino a gennaio del 1933, quando Hitler prese il potere, ne furono vendute quasi 230.000 copie, a dimostrazione che i tedeschi sapevano molto bene con chi avevano a che fare, cosa pensava l’uomo che li avrebbe guidati. Nei successivi dodici anni di dittatura ne vennero vendute, regalate o imposte (per esempio a ogni matrimonio) decine di milioni di copie. È facile immaginare l’enorme quantità di volumi che esiste ancora in Germania, fra quelli dell’epoca e quelli ristampati clandestinamente. Già, perché il governo della Baviera, proprietario dei diritti del libro dal 1946, ne ha proibito la ristampa per impedire la diffusione delle idee che vi sono contenute: ovvero, soprattutto, la superiorità della razza ariana e l’attribuzione agli ebrei della responsabilità di quasi
tutti i mali del mondo. Con le conseguenze - la «soluzione finale» - che sappiamo.
Idee aberranti, ma è sbagliato e controproducente cercare di pensare che non siano mai state scritte. Da un punto di vista pratico, perché comunque il libro è reperibile facilmente in internet (viene ristampato di continuo, per esempio dai nazisti americani, anche in tedesco); da un punto di vista culturale, perché è sbagliato tentare di soffocare l’esistenza di un libro, specialmente di quella portata storica. Un’altra conseguenza, pesante e concreta, è che oggi - in Germania e in molti altri Paesi, sulla sua scia - è possibile leggere Mein Kampf soltanto nel testo originale, senza la dotazione di un apparato storico-critico che ne illustri orrori, finalità e risultati. In pratica, si lascia che Hitler continui a fare la sua propaganda d’odio antisemita, senza un contraddittorio diretto.
A rendere ancora più paradossale la vicenda, c’è da considerare che il 1° maggio del 2015, a settant’anni dalla morte di Hitler, la Baviera perderà i diritti d’autore del volume, il quale quindi potrà essere ristampato da chiunque, con qualsiasi tipo di commento, o ancora senza commento. Da qui la saggia e necessaria mossa di Stephan J. Kramer, segretario generale del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, che ha sostenuto l’opportunità di pubblicare un’edizione critica di Mein Kampf. Si otterrebbe così il doppio risultato di togliere al libro il pericoloso fascino del proibito, e soprattutto di limitare i danni che potranno fare le edizioni acritiche o addirittura simpatizzanti. È vero, infatti, che il saggio del Führer è un vero mattone, come lo definì Mussolini nel 1934. Ma è anche vero che contiene slogan e suggestioni di facile presa su teste poco dotate di strumenti critici o predisposte a quel tipo di idee. Basti, in proposito, leggere il piccolo campionario di citazioni estrapolate nel box qui accanto.
Per questo ha ragione Kramer, quando sostiene: «È necessario pubblicare oggi un’edizione storicamente critica dell’opera per evitare che i neonazisti ne traggano vantaggio», mentre è risibile la risposta del governo bavarese: «Non revocheremo il divieto perché questo farebbe il gioco dell’estrema destra». Gli estremisti - di destra, di sinistra, religiosi e di qualsiasi altro tipo - traggono vantaggio specialmente dall’ignoranza, dalla mancanza di dibattito, dalle chiusure rigide che impediscono la conoscenza.
Invece, chi estremista non è - la società, la politica, la scuola - viene inevitabilmente danneggiato dalla mancanza di un esame critico del passato recente, e tanto più quando quel passato ha avuto effetti e conseguenze drammatici. Ne sappiamo qualcosa in Italia: dove, dopo la guerra, per decenni, in base a un antifascismo sacrale e acritico, si è prima impedito di fatto una conoscenza vera del regime fascista.
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