Roma - Pare ci sia attesa per il discorso di Gianfranco Fini a Mirabello. Ma è più la curiosità di sapere se gli tornerà la favella dopo la faccenda del Principato che per quel che dirà avendo già detto tutto e il suo contrario in 58 anni di vita. Certo, dopo il rimpiattino estivo tra Montecitorio di cui è presidente, Montecarlo dov’è di casa e il Monte Argentario tra i cui fondali ha cercato sollievo e cernie dovrà dare l'addio ai monti e tornare con i piedi a terra. Ci auguriamo che - incalzato dai giornalisti finora dribblati - si degni di dare una spiegazione umile e seria della vicenda monegasca così da riacquistare credibilità e metterci una pietra sopra. Ne ha tutto l'interesse poiché- stando a sondaggi - lui è in picchiata e il suo partitino all’angolo.
È davvero strano il garbuglio nepotistico in cui Gianfry si è cacciato per favorire donna Elisabetta e il corteo dei Tulliani. Non solo la casa di An svenduta e affittata al cognatino Giancarlo, ma anche le raccomandazioni Rai per il medesimo e la suocera. Esporsi per fare ottenere ai due contratti milionari con tanta petulante insistenza da rompere antiche amicizie in Viale Mazzini, non è da lui. Fini era sempre stato attento a tenersi fuori dai favoritismi. Non che sia estraneo ai maneggi dell’uomo dipotere,ma ha usato una cautela che stavolta è mancata. In passato, di fronte alle petizioni dello scocciatore di turno, scaricava l’incombenza sui collaboratori. Direttamente non si sporcava. Con i Tulliani invece ha perso l’aplomb e la sua proverbiale schizzinosità.
La verità è che, per Betty, Gianfry ha preso la classica sbandata dell’ultracinquantenne che si infiamma. Quando la incontrò qualche anno fa, frustrato dalla sua precedente vita coniugale, Fini si ringalluzzì. Si sottopose a dieta, andò in palestra e tornò un virgulto. Lasciato il look polveroso, passò alle cravatte in varie gamme di rosa - canina, damascena, gallica - fino al rosso salmone. Mise un alt alla canizie e al diradamento incipiente con sapienti cachet e chiome più fluide. Ora è il più bel presidente della Camera di tutto l’Occidente.La sua disgrazia,in tanto ritrovato fulgore, è di essersi imbattuto in una famiglia acquisita con un così formidabile opportunismo da superare perfino il suo. Gianfry ha fama di non avere scrupoli di fronte alle occasioni. Se parlate di lui con un ex missino vi dirà subito del matrimonio con Daniela Di Sotto, la prima moglie. Daniela lavorava nella tipografia del Secolo d’Italia dove Gianfry faceva il giornalista. La ragazza era una militante piacente e coraggiosa, sposata con un camerata doc, Sergio Mariani. Tra i due nacque l’idillio proprio mentre Mariani era in galera per un’impresa politica andata male. Anziché impedirla per ragioni di lealtà, la carcerazione favorì la tresca che approdò al divorzio e alle nozze dei due colombi. Per l’ira, Mariani si ferì con un colpo d’arma da fuoco e la comunità missina condannò la disinvoltura di Gianfry. Era la prova che aveva molti peli sullo stomaco. Se si comportava così nel privato, figurarsi nel pubblico, pensarono tutti.
I 30 anni successivi confermarono largamente l’egoismo opportunistico del Nostro. Pupillo del leggendario segretario missino, Giorgio Almirante, che ne apprezzava l’obbedienza, Fini divenne capo del Fronte della Gioventù. Nella votazione tra i militanti era risultato quinto su sette candidati. Era infatti impopolare per la spiccata antipatia e la freddezza. Ma Almirante lo impose contro tutti. Dieci anni dopo, nell’87, già malato e volendo ritirarsi, il segretario si mise in cerca dell’erede. Quello naturale era Pinuccio Tatarella. Giorgio fece però capire allo stato maggiore che preferiva Gianfry. Tatarella, che amava essere un’eminenza grigia,si dichiarò d’accordo e disse: «Io vesto male e parlo barese. Fini invece, data l’età, non è compromesso col fascismo, è telegenico, non sgarra una parola. In tv ci farà fare un figurone». Il discorso convinse e Gianfry, bello ma vuoto, fu intronizzato alla guida del Msi. Pinuccio ne divenne il suggeritore e fu la testa che gli mancava fino alla sua morte nel 1999.
Non sempre però, Fini seguì i consigli di Pinuccio, fece molto a capocchia e cominciarono le capriole ideologiche. Nel discorso di insediamento da segretario annunciò: «Vi porterò al fascismo del 2000». L’anno dopo (1988), si alleò al fascista francese Jean Marie Le Pen per le elezioni europee con grande comizio al cinema romano Adriano. Insieme a Le Pen andò a Bagdad a omaggiare Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait riportando in trofeo 85 ostaggi occidentali. Nel ’94, proclamò Mussolini «il più grande statista del secolo».
Sceso in politica il Cav (1994), si alleò con lui, uccise il Msi, fondò An con la «svolta di Fiuggi» e cominciò la fase antifascista. Fu un crescendo impressionante, tutto personale, a dispetto di molti dei suoi. Mise il marxista Gramsci tra i lari di An e scoprì i valori della Resistenza. Ospite in Israele nel 2003, divenne un antifascista furibondo. Disse: «Il fascismo è il male assoluto». Aggiunse, per la gioia dei reperti repubblichini di An, Mirko Tremaglia in testa: «Salò fu una pagina vergognosa». Poi continuò su questa strada solitaria. Nei 13 anni (dal ’95 al 2008) in cui guidò An si comportò come un satrapo orientale. Convocò un solo congresso a Bologna nel 2002. Nel frattempo, prese a odiare il Cav accusandolo di fargli ombra mentre gli doveva tutta la luce in cui si crogiolava: dalla sopravvivenza politica, alla vicepresidenza del Consiglio, il ministero degli Esteri,fino all’attuale presidenza della Camera. E proprio lui, il Tutankhamon di An, imputò il Berlusca di cesarismo, sostituendolo ai comunisti come peggior nemico. Le sue manovre per scalzare il Cav cominciarono presto. Già nel ’96, preferì le elezioni anticipate a un governo di tregua e di riforme istituzionali presieduto da Antonio Maccanico.
Gli mise continuamente i bastoni tra le ruote, tanto che il Cav, favorevole al tentativo, esclamò: «Fini ha quella passione per il dettaglio politico che io non ho. È bravissimo nella dialettica quotidiana, io invece detesto le battute del giorno per giorno». Casini dette manforte a Fini e si andò al voto. Per il centrodestra fu una batosta. Il Berlusca commentò: «Mai fidarsi dei professionisti della politica». Anni dopo, ripensando al suo fallimento, Maccanico lo spiegò così:«Fini aveva un’illusione: voleva andare a elezioni perché pensava di essere più forte di Berlusconi ».
Gianfry ci riprovò alle europee del ’ 99 con l’Elefantino, l’alleanza di An con Mariotto Segni. Pensava che congiunti avrebbero avuto più voti del Cav, ribaltando i rapporti di forza interni.
Non solo restarono venti punti sotto Fi ma presero insieme il 10,3 per cento dei voti contro il 15,7 della sola An nelle politiche di tre anni prima. Di tutti i successivi sgambetti di Gianfry al centrodestra, immagino che avrete ancora la memoria fresca. Quanto basta per non avere nessun interesse per quel che dirà domani a Mirabello.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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