Roma - Un’impresa formidabile che riesce a pochi ammiragli. Tenere insieme la flotta Lega, ultimamente in preda a correnti e cavalloni impetuosi, richiede un’arte e un’astuzia sopraffina. Umberto Bossi, dato per spacciato diverse volte (come Silvio Berlusconi, a cui sembra legato da uno strano destino parallelo), ci sta riuscendo alla grande. Sotto coperta si agitano fronde, scintille di sedizione, si organizzano pattuglie, covano vendette. Però la nave va, e anche benone considerando quel che succede altrove (nel Pdl, nel Pd, o anche solo nel neonato Fli). Il segretario federale applica i segreti dell’arte del comando appresa nei vent’anni di Lega nord. Il suo principio guida è il divide et impera. Bossi riesce, assecondando ora questa ora quell’altra forza interna, a non farsi travolgere da nessuna di loro ma anzi a sfruttare le divisioni per restare saldo nel proprio potere.
C’è una parte della Lega che guarda alle elezioni anticipate come all’unica probabile via d’uscita dal «pantano romano». Qui dentro si collocano Roberto Maroni e Giancarlo Giorgetti, potenti colonnelli che, con sensori in Lombardia (cuore del Carroccio) a Roma e nelle istituzioni, interpretano gli umori sotterranei della base padana e per questo intercettano sempre di più il consenso leghista. C’è poi un’altra corrente, radicata nel profondo nord, che non crede affatto nel federalismo fiscale, sogna tutt’altro federalismo, considera sostanzialmente fallimentare l’esperienza di governo della Lega e spera molli il Cavaliere.
C’è un’altra parte della Lega che invece lavora per tenere in piedi l’attuale assetto. Qui dentro c’è Roberto Calderoli, che ha convinto Bossi sulla possibilità di portare a termine il federalismo fiscale dando credito ai numeri di Berlusconi. Calderoli ha anche una motivazione in qualche modo personale nel non voler vedere crollare tutto, essendo lui l’artefice dei decreti sul federalismo fiscale che potrebbero diventare, per Bossi, il primo vero bottino federalista da esibire al popolo padano. Questo non significa che non ci sia armonia tra Calderoli e Maroni, però un diverso modo di vedere la situazione sicuramente sì. E Bossi? Da leader navigato, il capo è d’accordo con entrambi. Infatti il segretario alterna sapientemente (anche nel giro di poche ore) gli squilli di tromba sulle elezioni (anche prima dell’ultima prova parlamentare aveva detto «o federalismo o si va al voto») a messaggi molto più attendisti («andiamo avanti, i numeri sono buoni»).
C’è ancora un altro fronte che frena sul voto, ed è quello che riporta al cosiddetto «cerchio magico», i capigruppo alla Camera e al Senato, più la vicepresidente del Senato Rosi Mauro (ultimamente in disgrazia) e il tesoriere leghista Belsito. Qui il lealismo a Berlusconi si mescola a questioni interne che potrebbero esplodere in caso di azzeramento elettorale. Si parla di cambiamenti in vista negli organigrammi parlamentari della Lega, che avrebbero un’accelerazione drastica in caso di elezioni. E Bossi? Anche qui il capo è al corrente di tutto, ascolta e lascia fare in attesa che qualcuno faccia un passo falso. Alimentando così una situazione di incertezza che rafforza il suo pugno sul partito.
Nelle contraddizioni Bossi ci sguazza e sa farne un punto di forza. Basta vedere come gestisce il tema dell’unità nazionale. I leghisti non amano particolarmente l’Italia e il tricolore, lo statuto stesso parla di indipendenza della Padania. Eppure Bossi tiene moltissimo al rapporto con il capo dello Stato, lo rispetta e spinge i suoi a partecipare alle cerimonie che sul territorio prevedono la presenza di Napolitano, anche se sono poco sentite (per usare un eufemismo) dalla base leghista. In effetti una parte della Lega resta fortemente secessionista. C’è anzi il sospetto che molti, nella Lega, sperino nel fallimento del federalismo fiscale, progetto nato in seno alla Lega di governo (fedele al Cav), per tornare così alla Lega di lotta. Anche qui Bossi parla con lingua duplice, per tenere insieme tutte le parti, anche quelle opposte. Una volta attacca il tricolore e la nazionale di calcio (come quando disse che si sarebbe comprata una partita del Mondiale), un’altra volta si riveste da ministro del governo per smorzare i toni.
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